“La città proibita”: dagli spaghetti western al kung fu all’amatriciana di Anita Perrotta

Foto di Andrea Pirrello

Dopo Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out, La città proibita è il terzo film di Gabriele Mainetti, in sala dal 13 marzo. Questa volta siamo di fronte ad un kung fu movie, dove il regista alterna con grande abilità ed equilibrio scene cruente, sentimentali e commedia, mescolando l’odore degli spaghetti di soia alla pasta all’amatriciana, ma senza mai appesantire, attraverso un’alternanza di generi, regalandoci così un bellissimo Kill Bill di Piazza Vittorio.

Il film parte dalla Cina degli anni Ottanta, quando una legge proibisce di avere più di un figlio. È in questo contesto che crescono le due sorelle Yun e Mei, la secondogenita, che è costretta ad una vita nascosta in casa per evitare multe alla famiglia.

Con uno stacco temporale si passa a Roma, circa vent’anni dopo, nel quartiere Esquilino, dove Marcello (Enrico Borello) lavora come cuoco nella trattoria di famiglia e dove la mamma Lorena (Sabrina Ferilli) gestisce la cassa. Qui si inserisce Annibale (Marco Giallini), il migliore amico del papà di Marcello, che torna in scena nei panni che più gli si addicono, ossia quelli del Terribile di Romanzo criminale, ma questa volta depotenziato e invecchiato, un personaggio dolente, in balia della sua solitudine.

Alfredo, proprietario della trattoria e papà di Marcello (Luca Zingaretti), si innamora perdutamente di Yun, arrivata dalla Cina per guadagnare soldi e finita a fare la prostituta in un bordello gestito dalla mafia cinese; l’uomo fugge con lei, lasciando Lorena nell’incredulità e nella disperazione più totale.

Ed è in questa circostanza che le strade di Mei e di Marcello si incontrano e si scontrano. Mei (Yaxi Liu) cerca sua sorella e vede in Marcello un possibile aiuto per ritrovarla.

Ottima l’interpretazione da parte di Borello e di Yaxi Liu (sorprendente anche come atleta), seppure il regista manchi l’occasione di approfondire un po’ di più il personaggio di Mei.

La città proibita è il nome del ristorante cinese di Mr. Wang (Chunyu Shanshan), sede anche del bordello dove si trova Yun, un luogo oscuro, ambiguo, con i suoi sotterranei paralleli alla città sovrastante, dove invece vive il ristorante romano di Alfredo, suo rivale. Siamo davanti a due realtà opposte, legate da interessi economici e sentimentali, due luoghi che ci permettono anche uno sguardo, nonché una riflessione, sull’evoluzione dell’immigrazione nelle nostre città.

Il personaggio di Mr. Wang è il villain del film, ma che purtroppo rimane poco indagato e per questo alcune sue scelte risultano difficilmente comprensibili.

Mainetti riesce molto bene nelle scene d’azione, dove non si risparmia e a volte indugia, mentre ha più difficoltà nelle scene di impatto emotivo, dove cade di intensità e perde almeno due occasioni forti di commuovere il pubblico.

Non mancano illustri citazioni cinematografiche, come durante il giro per Roma di Marcello e Mei a bordo di una Vespa che ricorda Vacanze romane, un bell’ omaggio alla città di Roma di cui però non si comprende bene la necessità.

Foto di Andrea Pirrello

La fotografia di Paolo Carnera è esteticamente impeccabile, il montaggio di Francesco Di Stefano implacabile e vorticoso.

La colonna sonora originale firmata da Fabio Amurri è assolutamente coerente con le intenzioni del film, molto ben scritta, con belle orchestrazioni e temi che riempiono le scene di calore. Il compositore mescola sapientemente musica orchestrale ed etnica, pur a volte risultando troppo presente in quantità e volume, elemento che toglie qualche opportunità ai dialoghi di rimanere più scolpiti dal silenzio sulla scena.

Per la musica di repertorio, Mainetti sceglie canzoni degli anni Sessanta e Settanta, con splendidi pezzi di De André, Mina, Patty Pravo, regalando alle scene un’eleganza raffinata ed enfatizzando così i momenti sentimentalmente importanti.

Il finale melò non è propriamente nelle corde del regista e risulta un po’ straniante rispetto a quanto visto fino a quel momento, ma rimane comunque efficace alla resa del film.

La città proibita è indubbiamente un film che conferma l’alto livello artistico di Gabriele Mainetti e le sue abilità registiche. È un bel cinema di cui le sale italiane hanno bisogno.

Foto di Andrea Pirrello
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