Ho assistito allo spettacolo La Classe al Mattatoio di Roma. Un ambiente non convenzionale, quasi a preannunciare l’essenza dello spettacolo che avrei visto. Un Docupuppets per marionette e uomini, così viene definito La Classe di Fabiana Iacozzilli. Sulla scena, infatti, burattini di legno. Per dirla con le note di regia: <<fantocci di gioventù morte, che si muovono senza pathos su dei tavolacci che ricordano banchi di scuola o tavoli operatori di qualche tempo che fu>>.
Una storia semplice: burattini, mossi dalle mani di bravissimi attori-burattinai, diventano il simbolo di una infanzia perduta che ognuno di noi custodisce dentro di sé. Un’infanzia da cui iniziamo a diventare donne e uomini maturi. Un’infanzia piena di speranze, di difficoltà, di equilibrio e di incertezze. Gli anni più delicati della vita di una persona, che vibrano e si compiono soprattutto tra i banchi di scuola. I fantocci sono l’espressione di tutto questo, si scontrano, si aiutano, si sostengono, si odiano dietro ad una lavagna, si detestano davanti ad un compito. Tentando, tutti insieme, di sopravvivere alla mostruosa maestra Lidia, cattivissima suora d’Ivrea che li maltratta arrivando ad usare persino le mani. Una storia vera che viene ridimensionata e adattata a uno spazio per bambole.
<<Cosa rimane dentro di noi delle esperienze e delle cose che impariamo da bambini? Cosa facciamo delle emozioni negative, del male, della paura, delle botte?>>. Questi sono gli interrogativi su cui si costruisce lo spettacolo e da cui principia la regista Fabiana Iacozzilli.
Un ricordo autobiografico, che illumina sull’importanza dei vissuti infantili. Sul rapporto sottile che c’è tra la nostra infanzia e il nostro crescere, fino a divenire adulti.
Tuttavia, La Classe non riesce pienamente nel suo intento di distacco dalla realtà, nonostante il volere di Fabiana Iacozzilli: <<Ho sentito il bisogno di cercare dei riferimenti che mi allontanassero il più possibile dal mio dato biografico>>. Inizialmente vicenda universale, in cui lo spettatore è libero di sprofondare, cercare similitudini e immergersi, accade ad un tratto qualcosa che fa cambiare direzione allo spettacolo: un voice over della regista che timbra inesorabilmente il passo autobiografico e da lì quelle universali bambole di legno diventano solo Fabiana, con tutto il corredo di cattiverie vissute sulla propria pelle. Sicuramente una scelta voluta, che risulta essere, però, un’occasione sprecata. Lo spettatore si perde, si distacca, termina il processo di immedesimazione e subentra il pensiero esteriore. Ci si concentra sulla cronaca e si finisce per provare inevitabilmente un senso di pietà come davanti ad un telegiornale.
E dico questo, non perché in teatro non si debba portare la propria storia personale. Spesso, anzi, molto parte proprio da lì. Ma, credo che il teatro non possa mai rinunciare ad essere “universale”. Senza celare il proprio bisogno espressivo, quest’ultimo va governato, altrimenti resta soltanto qualcosa di “esterno” a chi guarda, non genera cambiamenti, non incide né sullo spazio né sul tempo.
Parliamo spesso di libertà espressiva e di gioia dell’invenzione, forse in questo caso il risultato non è parso essere esattamente questo: trapela un tipo di libertà fittizia, condizionata dai “modelli di adesso” che troppo spesso tendono a costringere un pensiero piuttosto che ad aprirlo. Uno spettacolo che tocca un tema così ostico, così potente e pieno di significati, non può limitarsi a essere una via di mezzo: le intuizioni giuste, la pulizia evidente, i movimenti perfetti e gli attori, eccellenti nel gestire le marionette, si scontrano con l’assenza di una decisione coraggiosa. Di una posizione che venga perseguita dall’inizio e che venga portata fino alla fine. Che so, qualcosa del tutto repellente o del tutto compassionevole o del tutto comica, o del tutto “contro”, insomma qualcosa di chiaro e deciso. Non un compromesso, come a me è parso di vedere in scena.
Fabiana Iacozzilli dice: <<Lo spettacolo voleva parlare di abusi di potere ma parla di vocazioni>>. Bene, ma di quali vocazioni stiamo parlando? Sembra evidente che questo sia uno spettacolo che vuole lasciare un segno, un messaggio. Ma quale? C’è una sovrapposizione di piani significanti che a me hanno confuso le idee. Dal pessimismo cosmico in cui Suor Lidia è il male assoluto a un racconto, sempre in voice over, in cui Fabiana, proprio grazie a Suor Lidia approccia al suo primo spettacolo teatrale per una recita scolastica. Significa non tutti i mali vengono per nuocere? Se non fosse esistita Suor Lidia con la sua crudeltà, la regista non avrebbe mai trovato conforto nel teatro? È davvero necessario che ognuno di noi viva un profondo stato di malessere durante la propria infanzia per scoprire i propri sogni o la propria reale natura? La propria vocazione? Messaggi importanti, certo, ma talmente tanto grandi che già affrontarne uno soltanto sarebbe a dir poco arduo. Mi sarebbe piaciuto sorprendermi a capire maggiormente cosa volesse dirmi Fabiana Iacozzilli.
I burattini dell’artista Fiammetta Mandich sono bellissimi. Credibili ed espressivi, carichi di emotività. Occhi grandi e pieni di energia. Fantocci che, con grande tenerezza, restituiscono la figura del “bambino”, senza cadere nello stereotipo.
<<L’uomo porta dentro di sé le sue paure bambine per tutta la vita. Arrivare a non avere più paura, questa è la meta ultima dell’uomo>> diceva Italo Calvino nel suo libro Il sentiero dei nidi di ragno. Il percorso di Fabiana Iacozzilli non è ancora giunto alla meta.
La Classe
di Fabiana Iacozzilli
regia Fabiana Iacozzilli
performer Michela Aiello, Andrei Balan, Antonia D’Amore, Francesco Meloni, Marta
Meneghetti
marionette e scene Fiammetta Mandich
luci Raffaella Vitiello
foto di scena Tiziana Tomasulo
consulenza PierGiorgio Solvi
organizzazione, comunicazione Giorgio Andriani, Antonino Pirillo
collaborazione artist Lorenzo Letizia, Giada Parlanti, Emanuele Silvestri
Romaeuropa Festival, Mattatoio,23 e 24 ottobre 2018.