La danza a Roma è fuori. M.A.D. di Balletto Civile/Michela Lucenti di Carlo Lei

Foto di Andrea Luporini

A casa si soffoca, lo sappiamo bene. L’ossigeno presto scarseggia, le superfici tendono a scaldarsi e, a meno di godere del privilegio delle ampie metrature, ci tocca la condanna di starci a contatto. Non si può uscire: è la calda primavera 2020, che sembra un’estate, siamo chiusi in casa, soli. La vicinanza più faticosa, più insopportabile e meschina è proprio quella con noi stessi. Ci conosciamo così bene, e nella vita normale abbiamo organizzato strategie così raffinate per ignorarci, che il non sopportarci più, tra noi e noi, è questione di ore: ecco i ricordi dolorosi, ormai irriconoscibili, come quei cadaveri di animali che si incontrano sulle provinciali, ridotti alla sola pelliccia a furia di passarci sopra; le nostre consapevolezze inquirenti, con gli indici severamente levati; le ossessioni, che percorrono al galoppo le desolate pianure dentro di noi.
Al fuoco di un’estate romana infinita – solo qualche giorno fa finalmente si è scatenato un temporale, che ha sciolto l’urina dei cani dagli spigoli dei marciapiedi –, quei contatti pelle a pelle con noi stessi nelle quattro mura degli appartamenti di periferia, si sono ristretti come il ragù lasciato a sobbollire per ore, i polmoni sono serrati, la vista annebbiata, a guardare dalle finestre non si riconosce più nulla. E uscire è diventato improvvisamente difficile.

Foto di Daniele Napolitano

Questo sembrano ricordarci Michela Lucenti e il suo Balletto Civile, riuniti a circolo attorno a un ulivo nel parco Alessandrino al Quarticciolo per l’apertura della seconda parte di Fuori Programma, il festival di danza contemporanea diretto da Valentina Marini. Il lavoro si intitola M.A.D., che sta per Museo Antropologico del Danzatore, ma all’acronimo non è difficile strappare di dosso i puntini.
Ci sono dieci casupole di plastica trasparente, due metri quadri al massimo di superficie, con un pratino artificiale a terra e il loro bel tetto spiovente – praticamente sigillate. All’interno di ciascuna un danzatore, illuminato dal basso, per lo più fornito di microfono: dieci grumi umani lasciati in balia di loro stessi. C’è la quarantenne terrorizzata dalla meta anagrafica raggiunta, lo zanni in calzamaglia preda della blasfemia, l’animalista incompreso che parla ottusamente al proprio enorme orso di peluche, il vecchio silenzioso progressivamente ridotto all’inazione, la Villi lungo-crinita con volpe impagliata. E, presenti lì con loro, ingombranti, ci sono le personali paranoie di ognuno: l’innocenza, la comunicazione, l’amore, l’abbandono, il silenzio, la tecnica, il colore arancione…
Questi corpi e queste ossessioni sono oggetto di travagliata ostensione: lo spettatore potrebbe davvero avvicinarsi fino quasi a toccarli, protetto dal velo della plastica, a prova persino di contagio virale, ma di fatto tutti mantengono la distanza di almeno tre metri. Così la vicinanza vira nel suo opposto, nell’incomunicabilità, nell’iterazione dell’identico, in quel parlare egocentrico proprio dei bambini, mentre gli altri guardano distanti, all’asciutto.

Foto di Andrea Luporini

Le azioni durano pochi minuti, e lo spettatore potrebbe esaurirle tutte nel tempo di un’ora al massimo. Se la topografia dell’installazione permette quel movimento della promenade circolare tra le “opere”, la postura dei performer, questa tensione “verso” lo spettatore, il richiamo che cade nell’impossibile risposta, il feroce bisogno d’ascolto ricorda tante esperienze di teatro sparpagliato, a partire dalle ormai storiche Dignità autonome di prostituzione, fino al più recente pseudo-pirandelliano Senza quinta né scene dei Muta Imago. Tale disposizione circolare consente però anche una fruizione complessiva del lavoro: basta posizionarsi tangenti a un punto della circonferenza e l’intero marchingegno ci si dispiega davanti. Questa è forse la dimensione ideale per godere di M.A.D., perché si scoprirà un quadro statico capace però di emettere linee vocali e cinetiche in costante dialogo o bisticcio. Se le voci, poi, prendono la deriva, se i ritmi si slacciano, basta un tocco di bacchetta dalla regia, un cambio di luce, per ristabilire il giusto “battere” e riallineare gli andamenti, fino al buio finale. Intanto, passaggio dopo passaggio, ciclo dopo ciclo, le pareti interne delle casupole si coprono di vapore, condensa, e cominciano a stillare, prima a gocce poi a rivoli, rispondendo al tormento del sudore che inguaina i corpi in movimento dei danzatori.
Ecco dunque incontrarsi il movimento (i performer nelle casette e le passeggiate degli spettatori) e la stasi (l’impossibilità di uscire e l’impressione di quadro dello sguardo sul totale), il fuori, l’en-plein-air (siamo pur sempre in un parco) e il dentro (le soffocanti piccole serre, via via sempre più viscerali e repulsive). L’esperienza è forse un po’ insistita, monotona, così come alcuni personaggi risentono di automatismi nella costruzione drammaturgica, una gonna di tulle di troppo, un gorgheggio misticheggiante, qualche frase poeticistica e vaga. Ma la durata, nel senso della messa alla prova dei corpi (non si dice in toscano “durare fatica”?) di tutti i corpi, ha un suo preciso scopo. Il sollievo dell’uscita dei danzatori per il finale si ritrova in quello degli spettatori, ricomposti anch’essi in linea per applaudire convinti a quello sforzo, prima di riprendere tutti la strada, poco per volta, attraverso il parco male illuminato, nelle strade deserte della periferia, tagliate solo da qualche macchina lanciata oltre i limiti.
E pensare che la minaccia sembrava quella di farci stare tutti in casa, al computer. Nuove fruizioni, nuove liveness, sublimazioni dei corpi non più solo nel lavoro, nei rapporti, negli acquisti più quotidiani, nella scuola, ma anche nel teatro. Non è che siamo in salvo, no, ma ora, in questo strano limbo di libertà condizionata, non possiamo non riconoscere che a Roma il teatro settembrino è il contrario dello star chiusi, è un tutti fuori per le strade, per i giardini tradizionalmente trascurati ma oggi tutto sommato accoglienti, nelle strade, a ritagliarsi scampoli di ossigeno e di bellezza tra le lamiere e le doppie file. Basti ricordare come è stato rotto il digiuno teatrale, con quel Turning – Orlando Version di Sciarroni all’India, nella bellezza del tramonto sul lungotevere, al secondo anno dell’esperimento di Roma non esiste di Dom-, a Fuori Programma ma anche alla stagione del Quarticciolo, inaugurata dalle “cene” del Teatro delle Ariette nei cortili del quartiere, e ad Attraversamenti Multipli, per le strade del Quadraro, a pochi chilometri da qui. Finché il tempo regge.

M.A.D.

ideazione Michela Lucenti
collaborazione creativa Maurizio Camilli, Emanuela Serra, Alessandro Pallecchi
danzatori da Balletto Civile
disegno sonoro Guido Affini, Tiziano Scali
produzione Balletto Civile
in coproduzione con Festival Oriente Occidente – Festival Fisiko! – Associazione Ultimo Punto/Festival artisti in piazza Festival Pennabilli
con il sostegno di Mibact.

Festival Internazionale di Danza Fuori programma, Parco Alessandrino, Roma, 19 e 20 settembre 2020.