Matteo Rovere e la sua grande abilità con la macchina da presa rendono giustizia a una tradizione cinematografica italiana che, inesorabilmente, sta dimenticando la sua “primordiale” qualità. Il Primo Re, la pellicola sulla fondazione di Roma, riesce a coniugare realismo, azione e protolatino, trasformando la nota leggenda in “storia”. O, almeno, in una versione possibile della storia. Esteticamente perfetto, l’inquietante racconto diventa realtà grazie alla regia e agli attori. E ci stupisce.
Girato unicamente con l’utilizzo di luce naturale, il film è in formato anamorfico e si avvale pertanto di una tecnica cinematografica di cattura dell’immagine a schermo largo, su una pellicola di 35 millimetri. Riesce a creare così un’atmosfera davvero unica e realistica, mettendo in evidenza la bellezza dei paesaggi, gli scorci naturali e l’ambientazione che il nostro Paese è in grado di offrirci. Le riprese volute da Rovere si sono svolte nel bosco del Foglino, nei comuni di Nettuno e di Manziana, tra i laghi e le selve della provincia di Viterbo.
È incredibile come le immagini riescano, letteralmente, a catapultare lo spettatore nella vicenda, ricostruendo una storia per noi oramai lontanissima, avvicinandola e rendendola profondamente contemporanea: trascorrono i millenni, le circostanze si trasformano, le ambientazioni assumono altre forme, ma l’uomo e la sua natura restano sempre gli stessi e le loro pulsioni immutabili. Laddove il potere diventa l’ambìto oggetto del contendersi, non vi sono remore, né ostacoli né regole da rispettare che sia oggi o tre millenni fa. L’amore viene meno, il conflitto si complica e la vicenda si macchia della “colpa” ancestrale.
Romolo e Remo sono due gemelli. Travolti da un’improvvisa e violenta esondazione del Tevere, entrambi si ritrovano senza più una terra e senza un popolo a cui appartenere. Catturati dai guerrieri della nemica Alba Longa, vengono resi prigionieri ed obbligati a combattere in violentissimi duelli nel fango. Insieme e contro altri schiavi. È Romolo allora ad avere l’intuizione: si offre di lottare contro il fratello Remo. Con incredibile astuzia, i due riescono a scatenare una grande rivolta e a fuggire via, liberando tutti gli altri prigionieri. Inizia da qui la loro leggenda, il principio della loro lunga avventura. Accompagnati dai fuggitivi e da una bellissima vestale protettrice del fuoco sacro, i due riparano nella foresta grazie a Remo, dotato di grande intelligenza che dimostra così la sua forza. Remo riesce a conquistare il ruolo di leader e a salvare il gruppo dagli inseguitori di Alba Longa. Ma quando la vestale decide di leggergli il destino, per lui infausto, egli decide comunque di sfidare il volere degli dei senza alcun timore.
Una fotografia di eccellente qualità, grazie all’incisivo lavoro di Daniele Ciprí, rende le immagini emozionanti. La cura dei dettagli e degli effetti regalano al film un aspetto “holliwoodiano” avvicinabile allo stile di Redivivo di Alejandro González Iñárritu o di Apocalypto di Mel Gibson.
Un lungometraggio accurato che riesce a far sperare, lasciando trapelare qualche barlume di bellezza nei confronti del cinema italiano che sembra oramai compromesso, abbrutito dalle logiche commerciali e distributive e, nelle sue storie, colmo di ammiccante “superfluo” anche quando sostenuto da soggetti di qualità.
Con questo film di Matteo Rovere si ritorna alla ricerca del personaggio, allo studio, al pensiero, al sentire, come accadeva una volta.
Alessandro Borghi (Remo) e Alessio Lapice (Romolo), in preparazione dei loro rispettivi ruoli, si sono esercitati per mesi nel combattimento corpo a corpo, a mani nude, con lance, con spade, mazze, materiali primordiali. Hanno acquisito, così, postura e movimenti estremamente credibili, ai quali hanno aggiunto una recitazione solenne aiutata peraltro da una ricercatissima lingua “diversa”. Inaspettatamente, il film è infatti recitato interamente in protolatino – ibridato con ceppi indo-europei nei punti mancanti – un linguaggio ricreato grazie all’ausilio prezioso di semiologi dell’Università La Sapienza di Roma.
Potremmo forse pensare che l’utilizzo di tale lingua arcaica sia una strategia per rendere più spettacolare il film e più credibili i suoi interpreti.
E se l’interpretazione degli attori può sembrare facilitata dall’idioma utilizzato e dalla sua incredibile efficacia espressiva e comunicativa, è anche vero che il rischio consapevolmente assunto dal regista Rovere è stato veramente alto. Con una lingua tale, apparire ridicoli e grotteschi sarebbe stato davvero molto facile se attenzione ed equilibrio non fossero stati perseguiti e raggiunti in ogni posa e se anche le più piccole sfumature recitative non fossero state ricercate con determinazione e delicatezza.
In fondo, chi meglio di un romano avrebbe potuto narrare le origini della nostra meravigliosa città eterna? Ponendo attenzione proprio a quella narrazione delle origini e a quelle “cose” della città che oramai si danno per scontate? Con un mix perfetto tra storia, leggenda e “romanzo”, negli occhi di Romolo e di Remo e nella loro ferocia, riecheggia il ricordo epico di un popolo che, a scapito della sua decadenza, ancora esiste e resiste e che, forse, ha dimenticato il suo passato, distratto dalla routine, dalla civilizzazione e dalla “in civilizzazione”, dal finto pudore e dalla paura della morte. Un popolo schiacciato da una società volgare, costrittiva e accelerata, tanto da perdere il suo talento e la sua energia viscerale e fiera. Un popolo che non sa più ricordare e che, se anche non racconta più le proprie gesta alle nuove generazioni, ancora oggi possiede quel daimon delle genti antiche.
Forse un giorno torneremo a ricordare da dove veniamo e chi sono stati i nostri padri.