Ha debuttato lo scorso 6 novembre al Teatro Vascello di Roma per Romaeuropa Festival il lavoro scenico di Arno Schuitemaker 30 apparences out of darkness, un’immersione visiva di sorprendente efficacia, soglia della danza nella dimensione della pienezza del buio e dei suoi reconditi e mistici epigrammi percettivi, dove finanche lo spettatore è chiamato continuamente a interrogarsi, a recuperare una parte di sé in quelle figure materializzate e allo stesso tempo quasi evocate sul palcoscenico nell’intangibilità di forme dello spirito. In potenza è il nostro desiderio di esserci in quel rito che va dispiegandosi davanti ai nostri occhi. Figure dello spirito, dunque, una fenomenologia (per dirla con Hegel) di forme apparenti e sparenti seppure carnali, presenti, vere. Definire 30 apparences out of darkness danza è ovviamente riduttivo, in virtù di quell’incedere politico di molti percorsi coreografici di questi ultimi anni: coreografia come intersezione della performance di un processo condiviso e collettivo rispetto al segno solipsistico della danza; coreografia quale prossimità all’altro (e dunque anche allo spettatore) che in questo caso il buio amplifica filosoficamente e ne interiorizza l’immagine rituale in quanto strumento per la “trascendenza”.
La scena appare buia con sottili, impercettibili ritorni di luce capaci di radicalizzare il concetto stesso di visione, lì a coglierne bagliori che scontornano nervature, parti muscolari in movimento, sguardi o nudità velate dalle ombre. Otto performer vanno a occupare l’area all’inizio con un andamento centripeto che tende a definirsi in un proprio spazio per modificarsi col tempo oltre la sfera d’azione di ciascuno e ciascuna, sospettiamo possano incontrarsi ma non accadrà, il rito ha la sacralità della ricerca non della scoperta. Il movimento articola tutto il corpo, si definisce nelle disarticolazioni delle braccia, nei piegamenti repentini che non sono mai cadute né compromessi col basso, è un incedere orizzontale come alghe nel mare fendono lo spazio con ritmo ondulatorio quasi ad assecondare una partitura sonora che si fa sempre più ossessiva, ancestrale. E le otto figure “perlustrano” uno spazio neutro, definito da teli neri che svettano verso il soffitto tenuti circolarmente sulla base così (ci sembra) da raffigurare una foresta di sequoie o anche, poco più avanti quando s’innesca una ulteriore temperatura sonora, uno scarno tempio con i suoi colonnati, qualcosa di una natura imperiosa capace di tramutarsi e tramutare quei corpi e di sacrale, misterioso appunto, in un confine naturale quanto architettonico sempre con movimenti di grandissima definizione pittorica.
Certo, l’oscurità è foriera di mistero e i performer mostrano tutta l’intenzione di custodirlo, ritraendosi dai fasci di luce che archiviano parti anatomiche dilatate o reiterate assumendo sempre più un ritmo accelerato. Ci ricorda Maria Zambrano che un paesaggio disvelatore del bosco oscuro è uno spazio aurorale, spazio indefinito nella notte che si deposita in un indefinito chiarore che ancora non è: la penombra, regno del non più e del non ancora. Ecco allora figure possenti cedere il passo a sensuali e armoniose fisicità (lasciando allo spettatore la possibilità di proiettare lì un immaginario ch’è suo), apparizioni della stessa intensità della falena che con la luce si consuma, un Laocoonte e le sue convulsioni mentre si incrociano anche solo tangenzialmente più di un o una performer che riemergono dal buio anzi lo comprimono abbracciandolo. Performer mostruosamente potenti come elementi di un unico corpo che in quel rito diventano coro. Scrive Furio Jesi a proposito della parola “elementi”: «…non deve far pensare necessariamente a figure, immagini, personaggi, oggetti, isolabili almeno in teoria come figurazioni autonome. “Elementi” possono anche essere, e spesso sono, in questo senso, delle connessioni, dei rapporti» (Furio Jesi, Il tempo della festa, a cura di Andrea Cavalletti, Nottetempo, Milano, 2013, p. 192).
Succede allora che fendono il buio dei lampi, le barre luminose a Led circoscrivono una diversa configurazione di quello spazio, illuminano saltuariamente le zone dello spazio scenico, ormai privo anche di buona parte dei tendaggi-colonne, ne incorniciano una nuova possibilità che le sonorità incalzanti portano a ripensare quanto abbiamo visto fino a quel momento e per liberare il buio dal suo mistero verso una iridescente venatura da clubbing, trasformando ancora una volta la ritualità e la postura dei e delle performer, compresi noi spettatori, che a quel punto ameremmo parteciparvi. Grande lavoro.
30 apparences out of darkness
performance di Arno Schuitemaker
danzato e creato con Ivan Ugrin, Ahmed El Gendy, Emilia Saavedra, Frederik Kaijser, Rex Collins, Clotilde Cappelletti, Jim Buskens, Paolo Yao
drammaturgia Guy Cools
musica Aart Strootman
disegno luci Jean Kalman
scena Arno Schuitemaker, Jean Kalman
produzione SHARP/ArnoSchuitemaker
coproduzione La Place de la Danse – CDCN Toulouse-Occitanie and POLE-SUD Centre de Développement Chorégraphique National Strasbourg
supporto Performing Arts Fund NL, Amsterdam Fund for the Arts, Fonds 21, and Zabawas.
Romaeuropa Festival, Teatro Vascello, Roma, 6 e 7 novembre 2024.