Sono trascorsi cinquant’anni da quel pomeriggio di venerdì 12 dicembre 1969, quando l’esplosione di un potente ordigno, sistemato nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano, uccide diciassette persone ferendone più di ottanta. L’immagine che si presenta davanti agli occhi dei soccorritori è una scena di guerra: corpi orrendamente mutilati, cadaveri tra le macerie, detriti, grida dei feriti. Ricordata come la “madre di tutte le stragi”, quel vile attentato inaugura un decennio tragico della storia repubblicana segnato prima dall’eversione neofascista e stragista, in particolare di Ordine Nuovo, e proseguito poi con il terrorismo delle Brigate Rosse e di altri gruppi armati dell’estrema sinistra.
Quasi alla stessa ora di quella giornata, altre tre bombe scoppiano a Roma, fortunatamente senza provocare vittime. Una esplode presso la Banca Nazionale del Lavoro in via Veneto, le altre due all’Altare della Patria e davanti al Museo del Risorgimento. Un atto di guerra in tempo di pace che cambia il corso della storia del Paese, inaugurando una cupa e drammatica stagione in cui si susseguono attentati con decine di morti innocenti e che culminerà con l’altra enorme esplosione del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Fu l’inizio della strategia della tensione messa in atto da formazioni neofasciste per fermare l’avanzata dei movimenti e dei partiti di sinistra e trascinare il Paese verso una deriva autoritaria. L’obiettivo degli attentati era provocare paura nell’opinione pubblica per favorire una decisa svolta a destra o persino un golpe militare come quello in Grecia dei colonnelli.
L’Italia repubblicana aveva già conosciuto in quegli anni incandescenti la violenza politica, ma la bomba di piazza Fontana segna una vera svolta epocale.
Le vittime di quella prima strage civile del secondo dopoguerra sono persone innocenti e ignare, lavoratori con l’unica colpa di trovarsi al posto sbagliato nel momento sbagliato. La morte di persone innocenti diventava, nella logica disumana degli stragisti, un sacrificio necessario. Un terrorismo indiscriminato che metteva in conto la possibilità di uccidere anziani, donne e bambini. Nessun cittadino, da quel momento, poteva ritenersi al sicuro, in nessun luogo.
Piazza Fontana, più che il vero battesimo della strategia stragista, è l’atto più grave di una escalation dinamitarda che inizia almeno diciotto mesi prima con diversi attentati tra l’autunno del 1968 e l’estate del 1969. In particolare, con l’attentato del 25 aprile 1969, nell’anniversario della Liberazione, quando lo scoppio di una bomba al padiglione della Fiat alla Fiera campionaria di Milano ferisce diciannove persone. Un secondo ordigno, due ore dopo, deflagra all’Ufficio Cambi della stazione Centrale di Milano. Solo qualche mese più tardi, nella notte tra l’8 e il 9 agosto 1969, otto ordigni esplodono su otto treni e altri due, inesplosi, vengono rinvenuti nelle stazioni di Milano e di Venezia. Quegli attentati, si capirà più tardi, costituirono la “prova generale” prima di Piazza Fontana.
È da lì che bisogna partire per comprendere a pieno la lunga stagione stragista. Il giornalista trentino Paolo Morando, nel suo libro Prima di Piazza Fontana. La prova generale (Laterza, Bari-Roma, 2019, pp. 381, euro 20,00), ricostruisce con grande efficacia quei mesi che precedono la “perdita dell’innocenza”. È un passaggio fondamentale perché fa luce su quel collaudato meccanismo di costruzione della prefabbricata “pista anarchica”, in seguito utilizzata per la strage di piazza Fontana. Gli attentati dell’aprile e dell’agosto 1969 diventano il laboratorio in cui viene costruita quella “verità ufficiale” che tornerà utile in seguito. Un carosello di ipocrisie e di bugie messo in piedi per individuare negli anarchici il capro espiatorio e in Valpreda il “mostro” di piazza Fontana.
Il cratere, che si apre nel pavimento della Banca Nazionale dell’Agricoltura dopo la deflagrazione, sembra ancora oggi la metafora della storia italiana: un buco nero in cui precipitano e si perdono in quell’oscuro abisso i misteri italiani, sepolti da segreti inconfessabili, trame internazionali, depistaggi, coperture, omissioni e manovre golpiste.
L’eco di quell’esplosione è arrivata fino ai nostri tempi producendo effetti deleteri, generando un diffuso senso di sfiducia verso le istituzioni, male atavico nostrano. Un distacco tra istituzioni e società civile che non si è mai più ricomposto, così forte da alimentare sospetti e dietrologie di cui sono imperniati tutti i capitoli drammatici della nostra storia nazionale.
Se, da una parte, la democrazia italiana ha respinto con successo l’attacco della stagione dello stragismo, a cominciare da quella straordinaria partecipazione di un popolo silenzioso e commosso ai funerali delle vittime della strage, dall’altra, cinquant’anni e sette processi non sono bastati per sentire una sentenza di condanna definitiva in un’aula di tribunale. Per la magistratura italiana, piazza Fontana è ormai, dopo trentasei anni di iter processuale, una storia chiusa. Il debito con le vittime e i loro familiari non verrà mai saldato.
«La geografia delle stragi nel nostro paese» – ha scritto amaramente il giudice Guido Salvini – «è un lungo susseguirsi di luoghi senza verità certe. Da Brescia fino a Bologna, Ustica, Capaci e via d’Amelio, passando per San Benedetto Val di Sambro, all’Italicus e al Rapido 904».
Per il giudice Guido Salvini, che a lungo ha indagato sulla strage a partire dalla fine degli anni Ottanta, piazza Fontana è una storia che non lo ha mai abbandonato, un’ombra e un pensiero di sottofondo. Persino dopo che la Cassazione ha emesso il suo verdetto finale nel maggio del 2005, ha continuato a scavare, da semplice cittadino e studioso. Da questa ricerca necessaria e impellente è nato un libro, scritto con la collaborazione del giornalista Andrea Sceresini, La maledizione di Piazza Fontana. L’indagine interrotta. I testimoni dimenticati. La guerra tra i magistrati” (Chiarelettere, Milano, 2019, pp. 611, euro 22,00). Pagine che sembrano uscite dalla penna di uno scrittore di gialli se non fossero il racconto di una pagina vera e drammatica della nostra storia nazionale. Guido Salvini ripercorre la storia delle indagini e dei processi, mette in fila i fatti, raccoglie testimonianze del tutto inedite. Dalla lettura di queste pagine scaturisce un grande senso di rabbia e di amarezza per un’occasione mancata. Testimoni scomparsi, luoghi scoperti troppo tardi, e una partita truccata non solo per i depistaggi, le coperture e gli occultamenti che hanno segnato le indagini fin dagli esordi, ma anche per le responsabilità dei propri “compagni di squadra”, con chiaro riferimento all’agire di una parte della magistratura. A quest’ultimo aspetto, è dedicata la parte conclusiva del libro.
Piazza Fontana è stata, parafrasando il titolo del volume, una “maledizione”, perché ogniqualvolta la verità stava per essere raggiunta, al momento di essere afferrata, quella verità tanto agognata finiva per sfuggire di mano perché sempre si interponeva un evento a impedire la solidificazione della verità: testimoni irraggiungibili o che muoiono prima di essere sentiti, documenti distrutti, piste non sufficientemente battute. «Se un nuovo processo venisse celebrato oggi» – scrivono gli autori – «sommando quello che è emerso in tutti gli altri processi e gli elementi contenuti in questo libro, è probabile che i responsabili della strage di piazza Fontana avrebbero tutti o quasi un nome». Ma, se la sentenza della Cassazione ha messo il sigillo finale a ogni tentativo di stabilire una più completa verità giudiziaria, una verità su questa vicenda – come ha sottolineato Guido Salvini – «esiste già, anche se nascosta all’interno delle sentenze; la verità storica è quasi tutta leggibile».
A distanza di mezzo secolo cosa si può dire con certezza di quella stagione?
Se una verità giudiziaria completa non c’è, piazza Fontana non è più oggi un mistero italiano. Nonostante un iter processuale infinito, caratterizzato da rinvii, annullamenti, trasferimenti di sedi giudicanti, esiti alterni, assoluzioni di tutti gli imputati, è altrettanto vero che decenni d’inchieste giudiziarie e ricostruzioni storiche hanno consentito di disegnare un quadro chiaro di quella infausta stagione, soprattutto con riferimento al contesto nazionale. Impossibile immaginare un esito giudiziario diverso, visto il coinvolgimento attivo, accertato in sede giudiziaria, di vari ufficiali dei servizi di sicurezza dello Stato, dall’Ufficio Affari Riservati, ai servizi segreti militari e alle forze dell’ordine nella gigantesca opera di depistaggio che ha inquinato e indirizzato le indagini fin dagli esordi. Fallimento processuale che, come ha opportunamente evidenziato la giornalista e ricercatrice Benedetta Tobagi, autrice del libro Piazza Fontana. Il processo impossibile (Einaudi, Torino, 2019, pp. 425, euro 20,00) non è stato soltanto il risultato di depistaggi, ma anche l’effetto delle «caratteristiche strutturali dell’ordinamento giudiziario italiano tra gli anni Sessanta e Settanta. È il lavoro della polizia giudiziaria, e in particolare degli uffici politici delle questure, dipendenti dagli Affari Riservati del Viminale, e di certi nuclei dell’Arma a condizionare le indagini, compromettendo di fatto l’indipendenza e la libertà d’azione della magistratura. Inoltre, gli alti magistrati che in quegli anni guidano gli uffici e siedono in Cassazione, nati e cresciuti sotto il fascismo, per cultura si muovono in piena sintonia con le esigenze del potere politico e hanno un ruolo centrale nel bloccare, trasferire o rallentare le indagini scomode, prima, e nello svuotare o far annullare le condanne, dopo».
Com’è noto, il processo per piazza Fontana si è chiuso nel 2005 in modo paradossale perché – come ha sottolineato lo storico Miguel Gotor – «pur avendo la sentenza acclarato, oltre ogni ragionevole dubbio, la matrice neofascista della strage e individuato i responsabili, la sentenza ha preteso di stabilire una verità storica priva però di effetti giudiziari».
Altrettanto chiaramente è emersa la responsabilità per i depistaggi di uomini dello Stato che agivano secondo i principi di una doppia lealtà: da una parte, la fedeltà alla Costituzione formale antifascista e, dall’altra, quella verso una Costituzione materiale di segno anticomunista e filoatlantica.
C’è, infine, una questione centrale e necessaria da affrontare: cosa rimane, a cinquant’anni di distanza dagli eventi di piazza Fontana e della stagione dello stragismo? Come raccontarla senza ridurla a un esercizio di mera commemorazione? A questi interrogativi prova a dare delle risposte il libro Dopo le bombe. Piazza Fontana e l’uso pubblico della storia (Mimesis, Milano, 2019, pp. 228, euro 18,00) tra i più interessanti e originali lavori pubblicati in occasione del cinquantenario. Frutto del lavoro di squadra tra diverse generazioni di studiosi, che hanno condotto ricerche accademiche sulla strategia della tensione e sulla storia del neofascismo in Italia, il volume affronta il nodo centrale dell’“uso pubblico della storia” o, forse sarebbe meglio dire, dell’“abuso pubblico”. La tesi sostenuta dagli autori è che la lettura della stagione dello stragismo, appiattita esclusivamente sul punto di vista delle vittime, abbia in questo modo eluso ogni tentativo di fare i conti con quel passato scomodo per non riaprire ferite profonde. Si è scelto, in modo pilatesco, di dimenticare per non giudicare. Una sorta di patto dell’oblio che ha così favorito un’amnesia collettiva per salvaguardare i segreti più inconfessabili della Repubblica. Una rimozione in sede storiografica e di discorso pubblico della verità storica sulla stagione delle stragi; una narrazione caratterizzata «da un rumore di fondo che confonde, appiattisce in una eterna notte in cui tutte le vacche sono nere (o rosse, in questo caso) fenomeni e processi sociali differenti, negando in sede storica quelle responsabilità rifiutate e cancellate anzitutto in sede politica e giudiziaria». Una narrazione che ha finito per alimentare il mito dei “misteri italiani”, la percezione diffusa che si sia tuttora lontani dall’aver stabilito la verità e individuato, a tutti i livelli, i responsabili di quelle stragi. «Soprattutto» – scrivono ancora gli autori – «è una narrazione che elimina la complessità e le distinzioni, considerando come unico processo storico e politico lo stragismo e il golpismo, la stagione dei movimenti, la lotta armata dell’estrema sinistra, da accomunare sotto la categoria generica di “terrorismo”».
Non possiamo comprendere la strage di piazza Fontana se non collocando quel disegno eversivo, portato avanti da apparati dello Stato e segmenti della classe dirigente politica ed economica italiana e finalizzato a contrastare un presunto pericolo comunista nel quadro internazionale della Guerra Fredda.
Per quanto non del tutto priva di “zone grigie”, le carte processuali e le ricostruzioni storiche consentono oggi di formulare un giudizio complessivo che non dovrebbe essere più messo in discussione, bensì entrare a far parte della memoria collettiva.