Propongo ai lettori alcune riflessioni che credo non del tutto scontate, anche e soprattutto alla luce dell’ennesima stagione teatrale invernale che si sta ormai concludendo, in attesa di quella estiva nella quale e per la quale dovremmo assistere, lo spero, a qualche interessante novità coraggiosa. Queste mie note nascono anche da quanto ho visto in questi mesi di fine 2018 – inizio 2019, e da quanto negli ultimi anni è stato deciso sia a livello ministeriale che organizzativo, in generale, del sistema teatrale italiano. Il mio punto di vista è “romano centrico” in quanto vivo a Roma, ma credo che sia inoppugnabile che gran parte degli spettacoli prodotti in Italia passino per la piazza romana, per cui credo che comunque uno spettatore romano, ancor più se da una certa angolazione è un “addetto ai lavori”, e un osservatore “partecipante”, possa avere una buona percezione di come si tenta di risolvere (o non) i tanti problemi dello spettacolo dal vivo nel contesto di un Paese dai mille problemi sociali politici ed economici.
Operare in simile contesto pone mille difficoltà, e spinge come ben sappiamo a scelte che facilitino l’acquisizione e la fidelizzazione del potenziale pubblico teatrale; se si analizza un tantino la programmazione mese per mese ci si accorge che esiste quasi un monopolio rappresentato da quelle sale di primaria importanza, a Roma non più di 6-7, che costituiscono i teatri stabili pubblici e privati, e in cui trionfa la modalità rappresentativa di messa in scena di testi classici o di autori di sicuro interesse nazionale, al punto che è difficile perfino che il bellissimo spettacolo di Mimmo Borrelli, La cupa, nato nella cuna del cosiddetto teatro di tradizione italiana con sede a Napoli, stenta a realizzare il suo giro! Mi si dirà che è da molte stagioni che si perpetua questa situazione, al che rispondo che mai come ora quasi non c’è più una solida produzione e circuitazione di spettacoli che sappiano coraggiosamente rompere determinati schemi (a parte la positiva situazione nell’isola felice costituita dal territorio emiliano-romagnolo).
Nei teatri medi e piccoli si sopravvive portando in scena commedie simil comiche, quelle che una volta costituivano il teatro del dopocena, rilassante, che ti regala due ore di svago; infine esistono alcuni spazi deputati che a fatica e per pochissime repliche ospitano bravi performers, che sono spesso anche autori dei propri testi, o che continuano, ma sempre meno, la linea del teatro di narrazione e cosiddetto “civile”. Fra gli altri chi ne fa le spese, in una simile situazione, sono anche gli autori, i drammaturghi, sempre più soli, sempre più sacrificati. E ancora chi ne fa le spese è anche, ahinoi, la parola, “la parola a teatro”! E ben venga, a questo punto, la riproposizione, in questi giorni all’India di Roma, di uno degli spettacoli che segnarono l’avanguardia giovanile anni Ottanta: Tango glaciale reloaded, di Mario Martone, dove quasi non c’è la Parola!
Non si tratta, a mio avviso, solo di un problema di drammaturgia scritta, di testi puramente verbali (comunque c’è sempre un testo preordinato, qualunque esso sia), né si tratta di una concezione “drammaturgista” del teatro, vexata quaestio ormai pressoché esauritasi, a parte qualche autore ancora convinto che sia il testo a determinare lo specifico teatrale. Si tratta di ben altro, ma qui vorrei fare un minimo di ordine che non pretende l’esaustività, indicando sommariamente alcune esemplificazioni di come si può intendere la parola a teatro, ma tenendo comunque sempre presente che la sua natura non è quella di essere letta, né quella di essere detta, ma soprattutto quella di essere agita, in situazione di comunicazione dal, o al, vivo, tra attori e spettatori.
Inizio con una prima tipologia, in cui registriamo la presenza sporadica di parole del tutto slegate dalla storia di un qualsiasi protagonista di grandi testi drammatici di tradizione, in funzione, o di commento, o di intima esternazione, da parte degli attori, che in definitiva del testo fanno un pretesto dando luogo anche ad altri linguaggi (quelli della musica, del corpo stesso, delle luci, ecc.). Si può dire che è una modalità ereditata dalla cultura dei grandi attori all’italiana di fine ‘800.
Altra tipologia la possiamo registrare quando gli attori o performers dipanano un flusso verbale monologico, realizzato come una vera e propria azione fisica, (pensiamo alla dimensione del lavoro attoriale secondo la scuola dell’Odin Teatret), dove le parole vanno oltre la struttura semantica (ricorderò sempre la Varley, in sede seminariale, insegnare a parlare come se il personaggio stesse all’interno di un tram: stupefacente!).
Altra tipologia: parole originariamente in forma narrativa, tratte anche da racconti calati nel fantastico e “a più dimensioni”: forse ultima propaggine di certo Teatro dell’Assurdo?
E ancora: testualità drammaturgica compiuta, facente parte del repertorio drammatico europeo del ‘900, per un teatro di tradizionale impianto rappresentativo; in tal caso la regia, rispetto a testi ancor più tradizionali, si pone con maggior libertà interpretativa (si pensi ad alcuni capolavori registici di Luca Ronconi).
Altra tipologia: flusso verbale monologico senza una coerenza “narrativa”, in stretto rapporto con il linguaggio di scena praticato dall’interprete, con andamento sia prosastico sia versale, (un esempio magistrale fra tutti quello del grande Carmelo Bene quando destruttura i molti testi provenienti dalla tradizione per ri-scrivere e dis-scrivere al fine di avvicinarsi al Vuoto).
Infine, ricordo quella tipologia di testi squisitamente metateatrali che alterna passaggi monologici a dialoghi rapidi e serrati tra il personaggio-attore ed altri personaggi emblematici del mondo teatrale, e assieme potremmo anche similmente ricordare modalità di messe in scena di teatro nel teatro.
Ebbene, credo dunque che sia ancor più necessario oggi tralasciare la definizione di genere “teatro di parola”, per riflettere senza l’urgenza di apodittiche risposte circa la “parola a teatro”, o “del teatro” o “nel teatro”. Credo che questo passaggio possa chiarire alcune intrinseche ragioni sulle quali la stessa scrittura drammaturgica acquista un’autentica necessità, sia nel suo essere linguaggio, sia nel suo essere precipuamente “teatrale” (e teatralizzata). Direi di più: si tratta anche di considerare il teatro proprio un laboratorio per l’esercizio della parola autentica. E proprio in questo senso va il testo del 2004 di Olivier Py, Epistola ai giovani attori, che invito a leggere (Editoria & Spettacolo, 2004), o a rileggere, il cui sottotitolo afferma: Perché sia resa la parola alla parola.
Ma cos’è la parola in teatro? In che senso è autentica? In che modo è necessaria? La parola in teatro è simbolica, inevitabilmente, poiché è detta, facendosi azione fisica (in quanto oralizzata e resa vitale attraverso la physis attoriale), in un contesto “finto” (non falso), dove si ri-fa la vita, la si ri-crea, per forza poetica, secondo quanto ci ha insegnato un Artaud: se la parola a teatro vuole “essere” solo parola della vita, allora cerchiamola nel “mondo della vita”, in quelle rare occasioni in cui c’è una rivelazione poetica, cioè fa parte di un’azione organica nel suo farsi e nel suo compiersi finale. Se la parola a teatro vuol imitare la vita, come sempre più spesso sta di nuovo accadendo oggi, è pura mimesi della vita, è un accessorio, un’aggiunta, è minimalismo e perde la sua carica significativa, comunicativa, simbolica. Quando dico simbolica, intendo polisemica, magari oscura, magari colma di non-detto, ma non nel senso del non-detto a livello psicologico, bensì a livello ontologico, in quanto la parola può non essere in grado di “dire” lo stesso mistero della Realtà: se dico “Dio”, questo è un simbolo in quanto nella comunicazione tra un io e un tu (così nella vita come a teatro, dove il tu sono sia i personaggi ascoltanti, sia lo spettatore stesso), Dio non può essere “sostanziato”, non può essere de-terminato, de-finito, avrà significato simbolico proprio perché la parola Dio può avere più significati, a seconda di chi la pronuncia e di chi lo ascolta.
La parola a teatro quindi, ancor più che nella vita, con tutti i suoi condizionamenti, può risultare autentica perché può sottrarsi a due terribili condizionamenti a cui è sottoposta nel mondo d’oggi: uno è il suo determinismo tecno-scientifico, che la fa essere “quella”, che gli fa significare solo “quella” cosa, come in una qualsiasi formula matematica o chimica, cosicché perde ogni alone di concretezza vitale, di forza metaforica, di risonanza sentimentale; l’altro condizionamento è la falsificazione a cui è sottoposta nel grande villaggio globale e globalizzante, un “foro” dove ogni discorso finisce per essere svilito, conformato, asservito, convenzionale: la globalizzazione, se si pone come valore assoluto, è uno dei totalitarismi odierni, assieme alla tecnoscienza, che annulla ogni nostra concretezza personale, ogni originaria tradizione specifica e particolare. A teatro la parola invece può auto-farsi, auto-divenire, auto-determinarsi, non etero-diretta, se non dalla libera dimensione comunicativa e di “comunione” che viene a liberamente costituirsi nel “fra” che mette in relazione attori e spettatori, vivendo davvero una sua autenticità e compiutezza, potenzialmente decondizionata dalle rigidità della società e della contingente e fattuale realtà.
La parola a teatro diviene necessaria se e quando esprime tutto il senso del suo essere una promessa, un giuramento, vicina ad un’azione sacramentale, un grido spontaneo, anche un rischio, una rivelazione. Tante altre opzioni sono solo questioni di stile, di poetiche, di gusto estetico, e appunto di “genere” (il genere “teatro di parola”), credo invece che sia necessario riflettere sulla “parola del teatro”, o “a teatro”, sapendo che non è possibile mettere un punto alla nostra ricerca: la realtà e il teatro che totalmente la ri-fà per via poetica e immaginativa, non possono certo obbedire a schematismi di pensiero: la realtà e l’intuizione poetica del teatro possono sempre mettere in scacco, superare, sgambettare, le nostre astratte e idealistiche griglie di pensiero, le nostre pre-convinzioni logiche (come il nostro “padre” Pirandello ci dimostra): il logos deve venire a patti con il mythos, cioè col racconto che facciamo del nostro cammino esistenziale.