Petrarca, asceso con il fratello Gherardo al Mont Ventoux, racconta in una celebre e commovente lettera a Dionigi da Sansepolcro (Familiares IV, 1) che l’apertura casuale delle Confessioni agostiniane abbia offerto ai suoi occhi la frase «Et eunt homines admirari alta montium et ingentes fluctus maris et latissimos lapsus fluminum et oceani ambitum et giros siderum, et relinquunt se ipsos» (E gli uomini vanno ad ammirare gli alti monti e i grandi flutti del mare e i larghi letti dei fiumi e l’immensità dell’oceano e il corso delle stelle – e trascurano sé stessi). Si tratta della pratica della bibliomanzia, cioè dell’apertura di un volume a caso – ma se c’è un luogo in cui non si dà il “caso” è proprio quello della predizione del futuro – per leggervi un responso. D’altra parte, lo stesso Agostino oggetto del vaticinio ne era stato attore, confessando di aver spalancato “il libro”, la Bibbia, trovandovi San Paolo che, nella Lettera ai Romani (13:13-14), sprona alla conversione: millimetrico è l’inserimento nel percorso del futuro Padre della Chiesa allora in piena crisi spirituale.
Fa sorridere il paragone, ma anche l’insegnante di scuola media nel bel mezzo delle vacanze natalizie, mentre fervono i Consigli dei ministri e la divinazione sembra dover riguardare il nuovo decreto riferito alle modalità di riapertura delle scuole dalle vacanze natalizie nella presente fase di ripresa dei contagi, anche il modesto insegnante di scuola media apre “a caso” un libro che ha fra le mani. È di Chiara Guidi, si intitola Interrogare e leggere. La domanda e la lettura come forme irrisolvibili di conoscenza, Sete edizioni, Faenza 2021, ed è il primo degli otto piccoli volumi di prevista pubblicazione, “atti” dei corsi di aggiornamento per insegnanti che una dei fondatori della Societas tiene dal 2012 nella storica sede del teatro Comandini di Cesena. Si tratta di un libretto flessibile, letteralmente, dall’austera copertina bianca, senza immagini, diviso al suo interno in sei capitoli seguiti da due pagini di “Azioni”, consigli di pratiche da applicare in classe.
Bene, la pagina che si lascia scegliere nel vaticinio è la 38, dove balza agli occhi una lista di parole in maiuscolo: STIGLIE, ASTILE, PALESTRITA, STIAMPA, SPRILLO e così via. Si tratta, il lettore pascoliano non può non riconoscerla, di una serie lessicale tratta dalle opere del poeta di San Mauro. Con esse fa il paio, alcune pagine prima, un’altra lista, e stavolta sono termini in uso nelle attuali teorie didattiche: PROBLEM SOLVING, COOPERATIVE LEARNING, TUTOR, GROUP PROCESSING ecc… Il campo attorno a cui il testo si muoverà, ora con dolcezza e circospezione, ora con improvvise aggressioni, è presto delineato: è la scuola come tecnica o come attività umanistica, totale; come semplificazione e trasmissione di contenuti predigeriti o come ricerca condivisa tra alunni e docenti sul corpo del testo e dell’arte. Quale sia la parte dalla quale l’autrice si schiera, è facile immaginarlo, ed è espressa da una citazione, francamente irricevibile, di Josef Albers: «Insegnare non è una questione di metodo ma di sentimento». Eppure, questa punta estrema non deve trarre in inganno: le lezioni guidiane non sono un inno all’improvvisazione o all’“attimo fuggente”.
Attorno alla parola, la parola detta, letta, scavata, rispecchiata nella sua assenza si aggira il libretto. Essa è esplorata dai due versanti: quella di chi ode e quella di chi pronuncia, due versanti che riescono ad incontrarsi e a scambiarsi di posto, come ricordano i versi citati di Gong di Rilke: «Non più orecchie…: Suono/che, come un orecchio più profondo, /ode noi che in apparenza udiamo. /Inversione degli spazi. Abbozzo/di mondi interiori nell’Aperto (…)». La parola come oggetto/strumento di insegnamento nel pensiero di Guidi, che della parola pronunciata ha fatto il fuoco della propria ricerca teatrale, non può accontentarsi dell’uso comunicativo quotidiano, strumentale; essa rifugge come nella poesia la mera denotazione, per scavare nella profondità anche attraverso il proprio suono; non teme l’incombere dell’inafferrabile, anzi deve fare di questo un compagno usato, come i finti marmi policromi di Beato Angelico sotto l’affresco della Madonna delle Ombre, dove il pittore «mette in scena la materia del colore. Cerca qualcosa nell’informe», secondo la lettura di Didi-Hubermann. E nell’inesistente, o nel non più esistente deve spingersi la specola del maestro: «ogni racconto nasconde il fuoco di un’esperienza e chiede di essere sentito, non solo spiegato. Sentire, ridare vita, con la propria voce, a ciò che non c’è più».
Ma poiché la scuola è scambio, è reciprocità, il punto di partenza per un insegnante deve essere da una parte il proprio tentativo di trasfondere nella propria voce la passione per la materia che trasmette, in un inesausto tentativo di ri-scoprire quella passione e il senso di quella materia; dall’altra sarà la parola incerta, il balbettìo, la fatica di formarla, la parola, un inciampo che mette insieme il maestro-poeta (così si arriva a chiamarlo) con l’alunno.
La fatica: fare scuola è porsi, secondo Guidi, in uno stato di costante interrogazione, sia della parola che di sé stessi, spingendo sempre e ripetutamente lo sguardo nella profondità, riconoscendo nelle tenebre i colori: tenebre «verdi, rosse, bianche» recita la Nelly Sachs delle Lettere dalla notte messe in scena proprio dalla cesenate. Faticoso? Sì, è faticoso. È un inciampo, è l’interruzione di un percorso facile, oliato, che ci obbliga a fermarci, a chiederci. Ma gli insegnanti possono esimersi dalla fatica solo se accettano di ignorarne la richiesta nei ragazzi – come quella di ordine, di serenità: «Il bambino cerca la fatica. La sua inattività sarebbe sinonimo di malattia. Lavora. Poi, pian piano la sua voglia di cose che richiedono fatica si spegne. Meglio il riassunto piuttosto che ingaggiare una lotta corpo a corpo con gli endecasillabi danteschi, con ciò che è estraneo, straniero», provoca Guidi, tradendo un’idea del fanciullo che mantiene tratti tradizionalmente aurei, in cui risuona la voce dei secoli, e di Maria Montessori.
D’altra parte, la costante interrogazione del testo, che si richiede all’insegnante e all’alunno, è sguardo spinto indietro opposto a un moto che avanza come l’Angelus Novus di Klee letto da Benjamin e citato nel volumetto, «(…) che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese. L’angelo della storia deve avere questo aspetto». Ma anche proiettato, proprio come quell’angelo, verso qualcosa: «occorre un punto verso il quale tendere per tenere salde le nostre azioni. Una luce verso la quale camminare, come Buchettino». Così nuovamente l’alunno e il maestro sono insieme in questo moto (a ben vedere reiterato, un moto che dura una vita), entrambi sempre rivolti verso quell’immagine di fanciullo che si è o che non si deve smettere di essere: l’Axotl, l’anfibio neotenico che in determinate condizioni può decidere di mantenersi nello stato larvale acquatico, infantile appunto, pur essendo fertile e generando figli, immagine-guida del volume, emblema su cui le azioni del docente dovrebbero incardinarsi.
Intanto oggi si torna a scuola, forse. Nei giorni delle vacanze di Natale circolavano voci su soluzioni diverse per evitare un diffondersi dei casi di Covid-19 negli istituti: avevano tutte come punto in comune la separazione, ora di una parte degli alunni dall’altra, ora dell’intera classe nei suoi componenti, con un ritorno in Dad per alcune settimane. La soluzione scelta è frutto di una mediazione politica più che sanitaria, e prevede diverse e differenziate situazioni, che sarebbe lungo e fuori luogo ricordare qui. È evidente che nel caso di un virus che si diffonde con la vicinanza la separazione, la frammentazione, l’inserimento di interstizi e pause sia la soluzione più immediata. È altrettanto evidente che, nella pratica quotidiana della didattica, per molti alunni la segmentazione di un compito complesso in compiti più semplici sia d’aiuto al conseguimento dell’obiettivo. Eppure, questi due esempi di ordinaria parcellizzazione sono significativi di un ambiente di per sé sezionato sotto molto punti di vista. Diverse materie e sottomaterie, “teorie” e “pratiche”, diverse classi ed età, diversi docenti a volte all’interno di un unico anno scolastico dimostrano la direzione in cui la scuola tende: un nastro trasportatore sul quale sono posti blocchi da portare a destinazione (tra i ragazzi è in uso il neologismo da videogame deliverare per intendere una consegna senza possibilità di rifiuto, liscia a destinazione). La duplice fatica buona, a cui Guidi invita appassionatamente nel suo libretto, è quella di cui spesso l’insegnante è invitato a fare a meno, sostituendo il percorso completo, l’imprevedibile porsi degli incroci sulla strada maestra, delle altitudini che si impennano inattese, con una rimodulazione del viaggio in brevi, comode tratte, per affrontare le quali non serve altro che un corto respiro e l’automatico andare dei piedi, la semplice esecuzione di un lavoro tecnico, smarrita l’unità di quel percorso che Buchettino fa dal suo albero alla finestra illuminata nella notte. La burocratizzazione del mestiere dell’insegnante, della scuola, la costante ansia della restituzione di un risultato, il più possibile tangibile, misurabile, la progressiva riduzione dell’impatto della personalità culturale del docente allo stile con il quale egli decide di applicare metodologie standard preparano la scuola alla sua irrilevanza, al sorgere di “agenzie formative” diverse, all’obsolescenza del sogno tutto sommato giovane di un’istruzione forte e generosamente inutile per (quasi) tutti. In questo panorama risuona il grido dolce di Guidi, da leggere, stavolta, a voce sussurrata, per evitare di enfatizzarne il versante consolatorio, di prendere per impraticabile nostalgia un’avanguardia accanita: «Voi state lavorando per un tempo che verrà. Non perdere il fuoco di questa certezza. Qualcosa nella didattica va spezzato, con coraggio, per rinnovare l’arte del vostro lavoro: un lavoro artistico di composizione, di costruzione, di riconoscimento. Vi è chiesto molto coraggio. È una rivoluzione silenziosissima, che pone di fronte a un bivio, il bivio dell’arte».
Ecco perché questo libretto, scosso da slanci genuinamente sentimentali ma ricco di rimandi solidi e persino di consigli pratici, retto da un’idea alta del mestiere del docente ma (programmaticamente?) avulsa dall’habitat, dalle quotidiane panie della scuola fatta e subita, a dispetto del candore con cui si presenta è un libretto rosso, da portare con sé nella borsa di lavoro, da aprire a caso non tanto per divinare, ma per inspirare la forza necessaria alla prossima lezione, nel breve tratto fra due campanelle.
Chiara Guidi, Interrogare e leggere. La domanda e la lettura come forme irrisolvibili di conoscenza, Sete edizioni, Faenza, 2021, pp.88, euro 18,00.