«Proviamo a immaginarci questa situazione affascinate: DI FRONTE a coloro che erano rimasti da questa parte stava un UOMO INGANNEVOLMENTE SIMILE a loro e, nonostante ciò (tramite una misteriosa e geniale “operazione”), infinitamente LONTANO, traumaticamente ESTRANEO, come MORTO; separato da un DIVISORIO invisibile e nondimeno terrificante e inimmaginabile, il cui vero senso e il cui orrore ci appaiono unicamente in SOGNO…Era dal regno della MORTE che veniva rivelato quel MESSAGGIO rivelatorio che provocava negli spettatori uno shock metafisico. E alla morte, alla sua bellezza tragica e piena di orrore, facevano riferimento l’arte e i mezzi di quell’ ATTORE». Dalle acque profonde, riemerge un reperto luccicante, quasi sacro per chi cerca nel teatro segni del combattimento con l’altrove. Sono le pagine a cui Tadeusz Kantor affida la trascrizione dell’inconscio al lavoro, una idea sublime di “teatro della morte” che di mortale non aveva nulla. «Bisogna ripristinare la forza primigenia dello shock di quel momento, quando di fronte a un uomo (spettatore), per la prima volta si trovò un uomo (attore) ingannevolmente simile a noi, ma allo stesso tempo infinitamente estraneo, al di là di una barriera invalicabile» scrive il maestro polacco nel suo manifesto (pubblicato in Italia da Editoria & Spettacolo, Tadeusz Kantor, Scritti. Volume 2: 1975-1984).
Tracce di quella luccicanza mai del tutto sepolta riaffiorano durante la visione dell’ultima opera della Piccola Compagnia Dammacco, a Castrovillari, per Primavera dei Teatri: La morte ovvero il pranzo della domenica, drammaturgia di Mariano Dammacco per Serena Balivo. Dal modo in cui l’attrice, “quell’attrice”, “ingannevolmente simile” alla donna, conduce la cerimonia, situandosi sulla soglia tra l’aldiquà e l’aldilà, riconosciamo le tracce di un teatro onirico in cui i vivi e i morti vivono nello stesso mondo, senza separazione. “Quel” teatro di fibra kantoriana emana da una scrittura disarmata, autentica, la scrittura di un autore (Mariano Dammacco) che crea sempre per un’unica attrice, Serena Balivo, sin dai tempi in cui lei, giovanissima allieva, gli si avvicinò per dirgli: tu sei il mio maestro, ti ho riconosciuto. Sono passati tanti anni ma quel pudore dell’incontro destinale si rinnova ogni volta, nella creazione di una scena interiore che sa farsi gesto teatrale, rimanendo intima, sorgiva.
Mariano Dammacco ci fa vivere il pranzo della domenica, un pranzo che tutti abbiamo vissuto, in un modo o nell’altro, con i nostri “vecchi”, creature sull’orlo della morte. «Sanno che il loro prossimo appuntamento è con la morte, e così ogni loro pensiero, ogni loro parola e ogni loro conversazione verte sul pensiero della morte» scrive l’autore. Ma come rendere teatrale un testo per unico strumento polifonico?
Come ci hanno raccontato gli stessi artisti a margine del loro debutto a Castrovillari, man mano che Dammacco scrive, Balivo comincia ad abitare quella figura, dotandola di una voce, di una camminata, di un modo di essere. A quel punto l’autore/regista accede a un livello superiore, più nitido, di scrittura, per rendersi infine pronto per la creazione scenica. Ed ecco nascere una donna né giovane né vecchia, con una parrucca grigia, una donna dalle mani tremanti ma dall’occhio spalancato in direzione della luce, una figura dislocata, altra, rispetto al personaggio della figlia che va a trovare i genitori morenti, una figura che non coincide neanche con la madre e il padre. Una creatura teatrale, immaginaria, che diventa il simulacro di madre, padre e figlia, un super-manichino (alla Kantor, che a sua volta traeva ispirazione da Gordon Craig), una maschera dotata di vita autonoma, un catalizzatore di “immagini fantasmate” INGANNEVOLMENTE SIMILE all’uomo e alla donna, capace di produrre, con la parola e il gesto, un vero e proprio cataclisma. È lei ad introdurci, in quanto esseri viventi (morenti), nel cerchio delle sue pratiche magiche, là dove una luce siderale si riversa sui pochi oggetti sparsi sul tavolino, come se ad illuminarsi fosse una scena interiore, la radiografia ultima del pranzo della domenica: una cerimonia alla quale siamo invitati a partecipare con i nostri ricordi, la nostra anima scorticata, i nostri morti così vivi e i nostri corpi eccedenti, fuori luogo, sempre sul punto di rompersi e liberare ciò che va liberato, per raggiungere, finalmente non visti non detti e non giudicati, il fondo dell’oceano.
Kepler 452: tra i resti del balletto consumista
Da Primavera dei Teatri, che tra i festival italiani è il più “creaturale”, quello più affine alla sensibilità dei direttori artistici (Saverio La Ruina, Dario De Luca e Settimio Pisano) interessati a cogliere i semi ancora prima che fioriscano in maniera plateale, arrivano molte altre sollecitazioni che meritano, tutte, di essere indagate. Ma se vogliamo tenerci stretti al tema della vecchiaia e della morte, il pensiero si lega naturalmente al nuovo lavoro della compagnia bolognese Kepler 452, Album. In un ambiente intimo nel quale vengono “dislocati”, accanto agli spettatori, vari oggetti raccolti nel mezzo di una tragedia naturale, l’autore e performer Nicola Borghesi (la drammaturgia qui è di Riccardo Tabilio) si rivolge a noi per interrogare la coscienza collettiva: come abbiamo vissuto finora? Vogliamo andare avanti così? L’autodistruzione: è quello che vogliamo? La storia che ci viene raccontata incrocia dettagli familiari (il vecchio padre a cui viene diagnosticato l’Alzheimer) e scene di storia sociale (l’alluvione in Emilia-Romagna del 2023) lungo il filo di una partitura documentaristica di fibra sottile che, come la madeleine di Proust, ha il potere di far lavorare febbrilmente le nostre menti.
Chi di noi non ha subito un lutto? Chi può dire, in tutta franchezza, di non aver mai conosciuto una persona affetta da Alzheimer o demenza senile? Difficilmente si troverà in sala qualcuno che non ha dovuto prendersi cura dei corpi dei propri anziani genitori. La materia, di per sé sensibile, viene trattata da Kepler 452 con grande precisione emotiva, senza approssimazioni. Frutto di un lavoro sul campo presso strutture specializzate nella cura dell’Alzheimer, Album incrocia, a un certo punto della narrazione, la tragedia collettiva causata dall’alluvione. «Mentre facevamo le prove di questo spettacolo, a Mondaino, è successo uno degli eventi climatici più estremi degli ultimi anni…Non sappiamo neanche noi perché ci siamo trovati in macchina, come spinti da un richiamo, a girare per quelle città piene di acqua e fango e di persone». A quel punto, Borghesi e Tabilio decidono di deviare, di seguire un’altra corrente che li porta apparentemente lontani dal loro lavoro, ma sempre più vicini al cuore del problema: vogliamo veramente scomparire come razza umana? Abbracciando, quasi senza capire come, una idea differente di “tempo” (più vicino all’idea bergsoniana del tempo come slancio vitale e durata), i due artisti hanno avuto la prontezza di collocarsi là dove la storia li stava chiamando, senza ostinarsi a prolungare le prove di ciò che, aprioristicamente, avevano deciso di fare. La bellezza del loro Album sta tutta in questo scarto, nell’impatto emozionale di una frenata che li ha portati ancora più vicini al grado zero dell’esistenza, alla condizione dell’uomo in disarmo che non ha più nulla da perdere perché ha già perso tutto. Dal “museo dell’alluvione” raccolgono vinili, bambole, diapositive, fotografie, musicassette, libri. «Adesso siamo pieni di questa roba e non so bene a cosa ci serve, non so bene come guardarla» dice il performer, mentre ci mostra alcuni segni-relitti dell’alluvione del 2023. «Mi fanno pena, questi oggetti, ma anche rabbia, questi oggetti» continua. Dalla tenerezza si passa alla rabbia, alla coscienza dell’ingiustizia.
Dopo aver interrogato Il Capitale di Marx, spettacolo con il quale hanno viaggiato in tutta Europa, Borghesi e Tabilio si sono fermati sulla soglia, là dove la ferita fa più male. Esiste un bellissimo poema scritto da Gabriele Belletti (da cui è stato tratto l’anno scorso anche uno spettacolo teatrale andato in scena al Teatro Centrale Preneste di Roma, in cui gli attori erano veri malati di Alzheimer), che narra sincronicamente la discesa di una anziana donna senza più ricordi in una terra tenebrosa e il disastro ecologico del Golfo del Messico, quando, dopo l’esplosione della Deepwater Horizon (era il mese di aprile del 2010), il mare sprofonda nel nero. E mentre la protagonista di Belletti si trasforma, d’un tratto in balena («Dina, animale senza orma, incontra l’aria nuova della finestra aperta. La memoria annega. Gli organi/ Il corpo/ I due grandi occhi si aprono/ E quel mare/ L’ha presa/ È ciò dentro cui ora è sospesa/ L’indifesa creatura/Dina si è fatta balena»), nello spettacolo di Kepler 452, il vecchio padre malato d’Alzheimer si confonde con gli sfollati dell’alluvione: malati, morenti e poveri sono solo “rifiuti”, materiale di scarto, inciampi fastidiosi nella danza macabra delle merci. Alla fine del viaggio la luce si spegne su una stanza vuota, disabitata, uno spazio in cui un tempo c’è stata la vita, e che adesso respira a fatica, lasciandoci soli con i nostri confusi ricordi che non sappiamo più organizzare in un album. Impegnati come siamo a dimenticare, smaniosi di sopravvivere ancora, un altro pochino, sì, ancora un giorno, un’ora almeno, fino a che anche noi non saremo spazzati via da simulacri sempre più giovani, sempre più nuovi, sempre più sani.