Siamo su una rivista di teatro a parlare di cinema ma lo facciamo con un regista che ha fatto di questi due mezzi espressivi, tradizionalmente in antitesi, un unico e fertile “campo di battaglia”, in cui l’arsenale del primo serve al secondo e viceversa, con l’unico comune scopo di conquistare il racconto di una storia, dei suoi personaggi e della loro vita in quella storia, e, cosa ancor più degna di nota, di condividerlo con gli spettatori. All’indomani della prima trionfale del suo nuovo spettacolo teatrale, Ferito a morte, tratto dalla scrittura gentilmente feroce di Raffaele La Capria in scena al Mercadante di Napoli, abbiamo incontrato Roberto Andò per parlare di un’altra sfida appena vinta sull’altro “terreno”, quello del cinema, con il bel film La stranezza, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e dal 27 ottobre nei cinema di tutta Italia. Una sfida non da poco, visto che si tratta niente meno che della figura di Luigi Pirandello e del racconto della genesi del suo dramma forse più conosciuto e rappresentato al mondo, Sei personaggi in cerca d’autore.
Il tuo film è piaciuto molto al pubblico della Festa di Roma, come anche ai critici, era una sfida importante Roberto Andò quella di confrontarsi con un gigante del teatro come Pirandello, come ti ci sei accostato?
Sì, è stata sicuramente una sfida importante, ma era un progetto che avevo in mente di realizzare da tempo. Così come da tempo avrei voluto lavorare con Salvo Ficarra e Valentino Picone, ed è stato un loro suggerimento a farmi riprendere il mio vecchio progetto sui retroscena della creazione dei Sei personaggi. Un retroscena del tutto fantastico poiché non credo che nessuno l’abbia mai ricostruito o indagato. Al di là di quello che Pirandello ha lasciato nelle lettere o nei suoi scritti, non c’è niente, non sappiamo niente. Diciamo che mi piaceva raccontare proprio questo momento irresistibile, che è anche un po’ magico, quello dell’incontro tra un artista, in questo caso uno scrittore, e una realtà che sollecita in lui la chiusura del cerchio di un’idea. Di fatto il mio è un film sul processo creativo, sull’ispirazione, in un certo senso è una sorta di sonata di fantasmi, in cui uno scrittore convoca dei mondi che non esistono. Ho cercato di raccontare questo momento cercando di togliere a Pirandello quell’aspetto un po’ astruso, concettoso che gli ha dato la scuola italiana, e anche un certo tipo di critica letteraria, quell’idea di “Vita- Forma”. Mi piaceva che fosse un Pirandello smarrito, per le vicende della moglie ormai ricoverata in manicomio, alla ricerca di una chiusura del cerchio per un’idea che covava da tempo, quella dei sei personaggi, ma anche, nel suo ritorno in Sicilia con il pretesto della visita a Verga, che è uno dei fatti veri del film, che fosse un Pirandello empatico, sornione, affascinato dai due teatranti amatoriali al primo incontro con loro.
Ecco, carne e sangue, è quello che hai dato ai personaggi del tuo film, ed è un’operazione abbastanza strana la tua, proprio in sintonia con il titolo. La stranezza, riferita all’estraneità rispetto alla tradizione dell’idea di Pirandello sui Sei personaggi, un testo che rivoluzionerà il teatro a lui contemporaneo, è anche la stranezza da parte tua di aver dato sangue e vita a questi personaggi, quindi anche a Pirandello e al suo processo creativo, utilizzando un mezzo come quello del cinema che sostanzialmente rispetto al teatro pecca spesso dell’assenza del corpo. È esperienza condivisa che il teatro sia sempre corpo mentre il cinema sempre mente, nel senso dello sguardo. Mi sembra davvero una bella rivoluzione quella che hai realizzato con questo film.
In realtà ho solo messo insieme due amori, come sai. Il teatro e il cinema. Poi mi sono reso conto, a posteriori, perché non ci ho pensato mentre lo scrivevo con gli sceneggiatori né mentre lo giravo, ma alla fine mi si è rivelato da quello che è stato scritto e anche dai commenti che ho ricevuto, che questo è anche un film sul pubblico. Perché sia al Teatro Valle, dove il pubblico reagisce con una bagarre, una sonora protesta, sia nel teatrino amatoriale siciliano dove il pubblico si fa protagonista e interloquisce con chi sta sul palcoscenico, alla fine oggi mi rendo conto che uno dei vari racconti di questo film è quello di un pubblico in cerca di autore. È qualcosa che in Sicilia succede normalmente e che Pirandello ha intuito come un sostrato antropologico, cioè l’esistenza di un desiderio, in Sicilia, proprio perché la vita non è sopportabile, di renderla sopportabile attraverso un’altra identità, inventata. Questa io penso che sia proprio una caratteristica che si tocca con mano in Sicilia. Quindi mettere insieme il teatro e il cinema è stato un po’ come … prima parlavo di fantasmi, il cinema ha a che fare coi fantasmi, nel senso che è una forma di allucinazione, se vogliamo. Il teatro, forse nella sua origine più sacra è una specie di possibilità di convocare i morti, di far vivere insieme vivi e morti, e nel film questo si mescola con qualcosa di molto profano che è la farsa, perché questi due commedianti amatoriali fanno la farsa. Anche quella è una cosa che non avrei potuto fare se non avessi l’esperienza della vita in Sicilia, se non avessi conosciuto veramente come nelle comunità dove si fa teatro amatoriale ci sia questo desiderio di mettersi in gioco, perché in definitiva si fa teatro per capire chi si è. Addirittura quando si fanno le feste popolari, ad esempio della Pasqua, è il paese che si mette in scena, e lo fa attraverso una processione in cui la Madonna incontra il Cristo ma in quella Madonna ci sono tutte le madri e in quel Cristo ci sono tutti i figli. Ed è molto affascinante questa mescolanza di piani tra finzione e realtà.
Questo è infatti il discorso proprio dell’antropologia teatrale, una disciplina nuova ma che viene da chi ha riflettuto tanto sul teatro come i riformatori del Novecento, che hanno studiato non a caso le tradizioni popolari per individuare una cultura teatrale originaria, dove c’è questa osmosi tra vita e arte. Cosa che tu hai trasposto benissimo innanzitutto nella scrittura della storia e poi nella messa in scena del film, questa osmosi tra vita e arte. Anche grazie ad una felicissima scelta attoriale, e di questa vorrei che mi parlassi, una scelta anch’essa inedita, dunque strana…
Sì, quella è veramente proprio la sigla della “stranezza” …! Sono partito da Salvo e Valentino perché loro sono stati gli ispiratori di questo progetto, due attori che io reputo superbi, perché hanno una loro grazia, e perché ero sicuro che potessero dare prova di un talento che sfuma dal comico al drammatico, al malinconico ecc. Loro sono stati parte in causa fin dall’inizio. Dovendo fare Pirandello poi non potevo che chiamare il mio amico Toni Servillo, con cui avevo fatto già due film. Siamo due amici della stessa generazione, amiamo le stesse cose, tra l’altro erano tanti anni che gli avevo annunciato che avremmo fatto qualcosa insieme su Pirandello, perché veramente a me lui me lo ricorda molto; infatti, quando abbiamo cominciato a tagliare il pizzetto è venuta fuori una cosa inquietante.
In effetti la somiglianza è impressionante…
È impressionante. Lui ha anche una sorta di doppio sguardo che se lo confrontiamo con le fotografie di Pirandello che conosciamo, in cui si vede come Pirandello passi dal sorriso sornione al demoniaco, vediamo che Toni ha lo stesso sguardo. Tra l’altro questo è un film che vede un Pirandello in azione ma che sta anche molto in ascolto, che spia la vita (un tema anche questo molto pirandelliano) e quindi è molto importante la postura dell’attore. Tutto questo sulla carta poteva funzionare ma la cosa impressionante è come ha funzionato nella realtà. Prima di girare il film ho fatto un provino per capire fotograficamente che tono volevo nel film, e questo provino della scena in cui Pirandello e i due becchini mangiano sulla bara mi ha dato subito la prova del tono che dovevo cercare, perché appunto lì i toni si mescolavano perfettamente, non pensi mai che hai di fronte due attori comici e un attore drammatico, cadono tutti gli steccati, senti che si intonano, senti che c’è una sfumatura molto sottile, molto piacevole, divertente, e tu credi a quei personaggi, perché una cosa che trovo bella di Valentino e Salvo è che loro hanno la tenerezza umana che ci voleva per raccontare questo mondo.
Non c’è dubbio che nel tuo film Ficarra e Picone sono due attori sempre credibilissimi, una vera sorpresa per tanti spettatori, specie per i critici. Non che non li avessimo mai apprezzati prima, al contrario, nel loro mondo comico sono molto amati e apprezzati, però qui è stata una grande sorpresa, anche per merito tuo che sei un bravo direttore di attori.
No, in realtà hanno fatto tutto loro…! Io li ho mescolati con altri attori che sono amici, che stimo e che ci volevano per fare la compagnia “vera”, quella che recita alla fine i Sei personaggi. È stato un lavoro molto importante quello del casting, un modo già quasi di scrivere il film. Quando abbiamo cercato gli attori per comporre la compagnia amatoriale, abbiamo trovato attori davvero grandissimi che venivano dall’entroterra siciliano e facevano il teatro amatoriale, molti non li conoscevo, e ho scoperto veramente un altro mondo. E poi per l’altra compagnia, attori che amo come Gigi Lo Cascio, Fausto Russo Alesi, Galatea Ranzi, Renato Carpentieri che fa un Verga meraviglioso. Era molto importante differenziare il tono del teatrino amatoriale da quello dei professionisti, e insomma era la premessa della riuscita, e questo cast corrisponde veramente a quello che volevo rappresentare. Salvo e Valentino sono stati dei veri complici, e Toni pure, loro tre sono diventati davvero amici in senso profondo.
Infatti, lo hanno detto in quasi tutte le interviste di essere diventati grandi amici con questo film…
Quando ho rivisto le interviste televisive della promozione, vedendoli insieme mi hanno dato l’impressione di essere un’unica ditta…
Sono quasi sicura che assisteremo ad altri progetti teatrali che li vedranno insieme, e ti invito a coltivarli…
Assolutamente sì. Bisogna sapere che Valentino ha proprio cominciato con l’esperienza del teatro amatoriale, è un testimone di che cosa significava in un paese siciliano vedersi la sera per fare delle prove con uno che faceva il salumiere, o un altro che vendeva la frutta o un altro che faceva il contadino, quindi, ce l’ha proprio nel suo dna. Salvo è uno che ha fatto teatro, ha studiato da attore e lo voleva fare da sempre e sono entrambi dei bravissimi attori di teatro, e quindi sono entrati davvero con il cuore in questo progetto. Entrambi innamorati di Pirandello, per motivi diversi.
Come li hai conosciuti?
È successo quando facevo il direttore artistico del Teatro Greco di Siracusa, li avevo invitati a fare Le rane con la regia di Barberio Corsetti, e fu un’edizione che rimase insuperata sul piano del pubblico, uno spettacolo molto bello.
È vero, ci fu anche questo precedente… Ma, insomma, il tuo film è davvero molto stratificato, bisognerebbe poterne parlare per ore, contiene tanti riferimenti e temi, letteratura, cinema e teatro, finzione e realtà, psicanalisi. Molto simbolica resta per me l’ultima scena della rappresentazione vera dei Sei personaggi al Valle, che segna una profonda rottura con le regole tradizionali del teatro dell’epoca, con l’idea rivoluzionaria di Pirandello che fa rompere la quarta parete, facendo comunicare la scena con la platea, un’idea che, se è stata sondata e approfondita dagli studiosi di teatro, tuttavia non è penetrata nella coscienza del pubblico fino in fondo come un’innovazione di Pirandello. La caduta della barriera tra pubblico e attori che si attribuisce giustamente alla seconda metà del Novecento, in realtà è stata anticipata da Pirandello di un trentennio abbondante.
Io sono stato molto amico di Tadeusz Kantor, uno degli artisti che mi hanno interessato di più del teatro. E Kantor diceva che per fare il teatro bisogna prima trovare il luogo della vita. Questa frase mi affascina totalmente perché è davvero il tema del teatro novecentesco, la contestazione del teatro tradizionale, e Pirandello è anche lui un contestatore del teatro, perché si è posto la stessa domanda. E i Sei personaggi è il luogo in cui lui cerca veramente la vita, e lo fa a partire da questo rapporto tra la persona e il personaggio. Io ho cercato in quelle poche scene del film in cui rappresento i Sei personaggi, di raccontare proprio l’intensità con cui Pirandello lo ha fatto. Ho immaginato lui che si aggirava per il Valle in questa serata, curioso ma anche emozionato, e poi alla fine l’ho fatto uscire sul palco come lui davvero aveva voluto fare quella sera, a prendere gli applausi, lui che non lo faceva mai di solito, quella sera capì che bisognava anche sfidare questo pubblico, che gli si rivoltò contro. Questa cosa del dileggio, che è poi rivolto a un grande autore che da quel momento ebbe un successo planetario, quello stesso anno (il 1921) andò a Londra a New York…
a Parigi…
A Parigi con Pitoëff… Invece lì ci fu veramente qualcosa di terribile…
L’Italietta…
Sì, l’Italietta che vuole offendere il genio, che vuole mortificarlo, che si prende la rivincita, quindi era importante uscire da tutta questa vicenda con un’emozione. Molta gente mi ha detto che la sua uscita sul palco, nel film, è emozionante, con lui che prende tutti quei fischi, le urla «Impostore, buffone, manicomio»…
Infatti. A proposito di quella ultima scena nel vero teatro, mi è molto piaciuta la tua scelta di aver messo i due attori-becchini (Ficarra e Picone) tra gli spettatori ma di averli caratterizzati come quasi sperduti, immateriali, come fossero due fantasmi…
Sì, ho in effetti pensato che avrebbero dovuto essere così perché sono una mia invenzione, e al contempo potrebbero essere addirittura un’invenzione dello stesso Pirandello, come accade nel processo creativo. Una fantasia dell’autore. Cioè tutto può essere concreto ma può anche darsi che alla fine loro rimangono chiusi nel teatro perché sono prigionieri di Pirandello.
Certo, perché anche loro sono in realtà dei personaggi…
Poi Pirandello è stato l’autore che ha avuto veramente l’ossessione del dialogo coi personaggi. Ha scritto ad esempio quel bellissimo racconto Colloquio con i personaggi. Io cito quel biglietto autografo che fu trovato nel suo studio in cui scrive «Sono sospese da oggi le udienze ai personaggi», è un autentico biglietto che faccio vedere all’inizio del film, nel treno. Perché lui è stato veramente l’autore che era ossessionato da questo dialogo, ne parla nelle lettere al figlio, ne parla con gli amici, quest’idea dell’udienza ai propri personaggi è un’idea strepitosa, come se lui fosse ossessionato da questi personaggi che premevano alla sua porta.
Certo è anche come spiega il processo creativo la psicanalisi, che era nata da poco, con Jung soprattutto…
Sì sì è vero…
È bella anche questa presenza di Verga, che, come hai detto all’inizio, è documentata, e quindi il rapporto tra Pirandello e Verga che io ho sentito rispecchiare in quella tua dedica finale a Leonardo Sciascia come qualcosa di molto personale.
Sì perché lui è stato per me molto importante, ma poi c’è un episodio che motiva quella dedica. Molti anni fa, quando io stavo a Palermo e vedevo Leonardo molto spesso, in certi periodi quasi tutti i pomeriggi, e una volta eravamo nella mia macchina (lui non aveva la macchina) e mi ha chiesto di fermarmi, perché voleva scendere: «Torno subito» mi ha detto. Poi è tornato con un pacchettino in cui c’era un libro, la biografia di Pirandello scritta da Gaspare Giudice, un grande critico letterario e storico della letteratura che ha studiato Pirandello. Per me è stato un regalo molto importante perché in quella biografia di Pirandello, oltre alle sue vicende con Maria Stella, il rapporto con la moglie ecc., è il processo creativo ad essere protagonista di quel libro. Quindi ho considerato fare questo film come la chiusura di un cerchio. Verga è interessante perché effettivamente Pirandello andò in Sicilia perché doveva essere il relatore ufficiale insieme a Benedetto Croce della giornata in onore di Verga, che invece gli disse che non sarebbe intervenuto perché era in polemica con tutto l’establishment letterario e considerava tardivo questo festeggiamento, questi onori che gli venivano fatti. Quindi Pirandello fece il discorso in assenza di Verga, però io ho sempre cercato di immaginare cosa si fossero detti quel pomeriggio in cui si incontrarono. Pirandello era ormai diventato lo scrittore più importante d’Italia, e il suo concorrente era D’Annunzio, in quel momento al massimo della fama. E lui fece un discorso bellissimo al Teatro Massimo Bellini in cui fece la famosa distinzione tra “scrittore di cose e scrittore di parole”, che riporto in qualche modo nel film. Ovviamente lo scrittore di parole è D’Annunzio, cioè lo scrittore che non ha altro mondo che la parola come artifizio, come gioco senza corrispettivo nella vita, che è puro ornamento, e poi lo scrittore di cose che lui identificava in una linea in cui metteva Boccaccio e Manzoni e ovviamente Verga. Quindi io ho immaginato questo dialogo tra i due, tra uno che sa di essere alla fine, Verga aveva allora 80 anni, e l’altro che è l’astro nascente della letteratura e che Verga considera di genio, ma un genio che voleva far esplodere quello che lui aveva fino a quel punto custodito.
Roberto Andò, dal teatro al cinema e di nuovo al teatro con uno spettacolo che hai appena inaugurato con grande successo a Napoli: Ferito a morte.
Sì ho fatto una doppietta… Ho debuttato a Napoli il giorno prima dell’anteprima del film a Roma ed è stato un successo davvero incredibile. Quella è stata un’altra bella sfida che ho accettato perché amo questo romanzo per tante ragioni, e mi sembrava che – al di là del fatto che io sono palermitano – fosse uno di quei romanzi che permette una resa dei conti col tuo luogo d’origine, poi c’è il tema dell’amicizia, degli amici che perdi, e altri temi che mi appassionano, ma soprattutto la forma che mi consentiva di trovare a mia volta una forma che non fosse tradizionale. Quindi anche qui è stato un viaggio ipnotico, molto particolare.
Grazie per questa bella conversazione, è sempre un piacere parlare con te, e specialmente in questa occasione, per un progetto che mi pare una cosa grande, perché hai toccato un argomento così importante ma anche così difficile come la rivoluzione teatrale di Pirandello utilizzando una formula che permette di farlo arrivare dovunque, al cuore di spettatori anche meno avvezzi a riflettere sul teatro.
Per me è anche un punto di arrivo, se l’avessi fatto dieci anni fa sicuramente non sarebbe stato lo stesso, le esperienze della vita mi portano a considerare questa materia in modo diverso, anche liberandomi di quello che so. È stata davvero un’esperienza felice.
E si sente in ogni fibra del film questa felicità creativa, la tua e quella degli attori. Raramente ho visto al cinema un film così vicino allo spirito vitale del teatro, in grado di restituire proprio quella vita che si è soliti sperimentare piuttosto a teatro.
Sì, è così, anch’io ho sentito la vita che sento di solito a teatro, il respiro quasi di questa vita. Ieri ero a Milano, dove ho presentato il film con i miei attori, e c’era Maurizio Porro, un critico di cinema con una grande passione per il teatro, che mi ha detto: «Hai fatto un atto magico», ed è vero, è proprio così, è una magia.