Dopo avere vinto a Cannes l’anno scorso Il Gran Premio della Giuria e il FIPRESCI, La zona d’interesse – film diretto dal regista e sceneggiatore britannico Jonathan Glazer e tratto dal romanzo omonimo di Martin Amis – una co-produzione anglo-polacca, trionfa anche agli Oscar come Migliore Film Straniero non sorprendendo per la sua vittoria meritata e non dovuta a motivi legati alle vicende storiche che fanno da sfondo alla narrazione.
Un elemento che va immediatamente portato in luce del film è che la storia sottende molte più vicende di quelle raccontate nell’opera filmica: al dì sotto della spaventosa coltre storica tedesca dei campi di sterminio si aggrovigliano uno sull’altro fatti naturalmente evocati dal plot. Quest’ultimo, infatti, non smette di ricordarci nemmeno per un secondo che quell’abominio non è mai finito: lo viviamo tutti i giorni. Oggi più che mai con guerre e genocidi (il conflitto israelo-palestinese, quello russo-ucraino).
Le parole di Hannah Arendt risuonano nelle nostre teste e appaiono, oltre che profetiche, di una verità ineluttabile, che non siamo mai stati in grado di scongiurare perché serpeggia nella sua più scontata banalità, rendendo il male un fenomeno comune e non un evento eccezionale da attribuire esclusivamente al potere o a eventi di grande portata nella loro manifestazione.
Il film si apre con una colonna sonora e un campo lungo che ci immerge immediatamente nella storia, evocando grida umane, senza imitarle, ma graffiando l’anima di chi le intuisce come a voler da subito materializzare una mostruosità senza usare immagini scontate.
La zona d’interesse, infatti, è un’opera che lavora in sottrazione, creando un effetto di grande valorizzazione dei significati visivi che vengono centellinati così da realizzare una sorta di doppia visione dello spettatore rispetto al film.
La storia ci racconta di Rudolf Höß, comandante del campo di concentramento di Auschwitz e persona realmente esistita, di sua moglie Hedwig, dei loro cinque figli e di altri personaggi che vivono felici – senza alcun tipo di alterazione – la loro quotidianità all’interno della cosiddetta “area di interesse” (Interessengebiet) di circa 25 miglia attorno al campo.
La descrizione soggettiva della loro esistenza giornaliera viene riportata attraverso campi e controcampi, che ritraggono una famiglia teutonica alle prese con le vicende domestiche, la cura del giardino, l’educazione dei figli, l’accoglienza degli ospiti.
È in uno dei pochi piani sequenza che si scopre l’orrore e si intravede Auschwitz nella sua “indimenticabile” architettura. Non è necessario attendere l’immagine che concretizza la presenza del muro che li divide ciechi dall’orrore perché le voci, gli spari, i suoni di morte sono più forti di qualsiasi immagine proiettata.
Ben presto emergerà anche il male più subdolo e l’alienazione familiare, quando la madre di nascosto della figlia Hedwig (una straordinaria Sandra Hüller) deciderà di lasciare il campo perché non regge l’orrore che spia di notte dalle finestre che si trasformano in una specie di incubo a occhi aperti.
La reazione è inaspettata rispetto all’atteggiamento di indifferenza. La protagonista cercherà vendetta, minacciando la cameriera che serve la colazione della madre, accusandola di farle un dispetto e dichiarando che potrebbe farla incenerire dal marito in qualsiasi momento. Azione immaginata con la stessa leggerezza con cuii incenerisce nella stufa il messaggio di commiato della madre, fuggita da un mondo crudele e assurdo.
L’unica presenza viva, non alienata di tutto il film, sembra il povero cane che, come tutti gli esseri “puri”, percepisce la situazione e si agita correndo da una stanza all’altra di una casa invasa dal male: lo stesso che ritroviamo nei personaggi del film i quali, a loro volta, ricoprono sia il ruolo di vittima sia quello di carnefice.
Non manca una figura salvifica, posta a rappresentare la speranza di un’umanità in grado di poter sfuggire al male più oscuro: è la giovane polacca, in una versione animata del film, a rischiare la propria vita per poter dare aiuto ai prigionieri durante la notte.
Ritroviamo ancora una volta le parole di Anna Arendt: «Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso “sfida” come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale».