L’altrove acquatico di Roberto Latini di Katia Ippaso

Foto di Manuela Giusto

Che le maschere della commedia dell’arte portassero in sé una parentela con il regno dei morti, per via della loro natura ambigua, “organica-inorganica”, Roberto Latini deve averlo sempre pensato. Non avrebbe, altrimenti, potuto farne l’oggetto esplicito di due suoi spettacoli, Il teatro comico da Goldoni (2018), e Mangiafoco, opera del 2019 in cui lanciava dallo stesso trampolino i burattini di Collodi e altre maschere del Novecento, Topolino compreso. Le risate soffocate di quelle creaturine venute a chiedere un po’ di ossigeno, per poi svanire nel cono d’ombra di un sipario argenteo, sono ancora nella nostra memoria, ravvivate dall’ingresso in vita di un terzo fratello che ha un nome perturbante, curioso, Pagliacci All’Uscita: da Leoncavallo a Pirandello, ultimo movimento di una ideale trilogia firmata da Latini e dalla sua strepitosa compagnia che, con alcune varianti, avanza in questo nostro tempo come materia irredenta, inconscio non rimovibile, testimonianza nubile di un modo di intendere il teatro che trova i suoi padri nobili in Leo de Berardinis e Carmelo Bene. La chiameremo “compagnia drammatico vegetale”. Perché? Con un colpo di genio, Giorgio Manganelli aveva definito “drammatico vegetale” la compagnia del Gran Teatro di Mangiafoco, dove Pinocchio conosce i suoi fratelli Arlecchino, Pulcinella e Colombina. Uno dei capitoli più visionari dell’opera collodiana, che mette in scena la paura (di essere bruciati), la vicinanza con la morte, la minaccia di un potere barbarico e il pericolo che corrono tutte le creature fragili, disobbedienti, anfibie. Con Mangiafoco (che si guadagnò il premio come migliore spettacolo dell’anno a Le Maschere del Teatro), Latini aveva realizzato in qualche modo la sua opera-manifesto (e parliamo delle opere con corpo collettivo e plurale, dove l’artista romano non è solo in scena), una mise en abyme in cui le fosforescenti creature di latta, di carta, di legno, di stoffa e di carne, ballavano sull’orlo dell’abisso, tenute insieme da un filo elettrico, ancor prima che psichico. Ora, quella compagnia “drammatico vegetale” fatta di «uomini simili», burattini maschere e attori, è tornata a vivere sui nostri palcoscenici. Grazie a un’opera ermetica, ipnotica, avveniristica, indifferente alla lingua dominante del tempo presente, affascinata dal repertorio ottocentesco.
Lo spettacolo allinea il libretto di Pagliacci, l’opera lirica scritta e musicata da Ruggero Leoncavallo (che debuttò il 21 maggio 1892 al Teatro dal Verme di Milano, con la direzione di Arturo Toscanini) e l’atto unico di Luigi Pirandello All’Uscita (messo in scena per la prima volta il 29 settembre 1922 al Teatro Argentina di Roma), al fine di creare «una terza opera, per evocazione e compromissione». Cosa lega le due partiture? Una risata portatrice di lutto. Se l’aria “Vesti la giubba” (più nota come “Ridi, Pagliaccio”) prefigura il delitto che si consumerà in scena, quando il protagonista, accecato dalla gelosia, ucciderà la sua Nedda, in Pirandello la donna verrà uccisa a causa del suo modo di ridere: «Alla prima risata, la ucciderà» dice l’Uomo Grasso al Filosofo nel cimitero, antro scenico dell’atto unico pirandelliano. «Io già gliela sento gorgogliare nelle viscere convulse la tremenda risata, che alla fine proromperà in faccia a lui da quella feroce bocca». Da quel limbo interstiziale, l’Uomo Grasso, che è stato appena ucciso dall’amante della moglie, racconta dunque al Filosofo, anche lui morto, della sua paura che la moglie stia per raggiungerli. «Ogni qual volta la sentivo ridere, mi pareva che ne tremasse la terra, e il cielo si sconvolgesse, e il mio giardinetto si riducesse arido… certo egli la ucciderà». Entrambi i testi, Pagliacci e All’Uscita, si concludono dunque con un femminicidio. Oltre al motivo della risata, c’è la figura dell’asino che appare in entrambe le opere.

Foto di Manuela Giusto

Ed è sulle sfumature dell’“asinità-alterità” che Latini decide di far recitare Ilaria Drago, a cui affida il prologo in Pagliacci e la parte del filosofo nel secondo atto.
Mentre Elena Bucci, che ad ogni suo apparire ci ricorda quanto è stato grande il teatro di Leo de Berardinis (della cui compagnia ha fatto parte per lunghi anni), si fa carico dei ruoli più dichiaratamente femminili (Nedda in Leoncavallo, la donna uccisa in Pirandello).

Foto di Manuela Giusto

Se il personaggio di Canio il Pagliaccio si moltiplica per tre, ramificandosi in una figura assorta e ascetica (Marcello Sambati, che recita in una forma minimale, quasi sussurrata, la celebre aria di “Ridi Pagliaccio”), un’anima sanguigna (Savino Paparella) e una dimensione orfica (lo stesso Latini), nella seconda parte i personaggi si tengono stretti ai corpi degli attori, nello sforzo di non scomparire, risucchiati dall’alito della morte.

Foto di Manuela Giusto

Lo stesso Latini inchioda se stesso al pavimento scivoloso, recitando le battute dell’Uomo Grasso come se non volesse staccarsi dalla terra dei vivi: «Il mio rammarico è ora di non averne saputo godere. L’aria io la respiravo e non me lo diceva ch’io vivevo, quando la respiravo… Una miseria di pensiero mi teneva assorto e chiuso». Nell’interpretazione di Latini, sembra di avvertire una citazione giocosa della “maniera” con cui nel tempo gli attori della nostra tradizione (e viene in mente soprattutto la Compagnia dei Giovani) hanno affrontato il repertorio pirandelliano. L’Uomo Grasso affonda e riemerge continuamente dal liquido amniotico della nostra storia, conferendo una sottile patina metateatrale a tutta l’operazione (d’altro canto, All’Uscita, è stato scritto da Pirandello dopo Sei personaggi in cerca d’autore, l’opera che terremotò il Novecento letterario e artistico), senza rinunciare al pathos (che trasloca peraltro da un’altra regia di Latini, L’uomo dal fiore in bocca, tematicamente affine).
Pagliacci dona alla compagnia “drammatico vegetale” un’aria metafisica (ricordiamo che il delitto d’onore si compie in scena), come se le maschere della commedia dell’arte parlassero da un altrove. Quello stesso altrove in cui Pirandello colloca i suoi morti in attesa di altri morti, «apparenze di apparenze», abitanti di un limbo in cui le parole sono urlate, cantate, spezzate, sibilate, mangiate vive, lanciate in aria, per non svanire del tutto. Non c’è interruzione tra la prima e la seconda opera, ed è l’elemento acquatico a fare da bacino di congiunzione. Un’acqua paludosa che incatena, azzoppa, astrae, svuota i corpi del loro stesso peso, consegnando marionette, maschere, burattini, pagliacci, morti e non ancora morti ad una condizione di impotenza, come se le dramatis personae di questa partitura-calamita fossero condannate a ripetere in eterno le stesse azioni. Le musiche di Gianluca Misiti enfatizzano il clima di spavento, di oscura premonizione, rielaborando con la maestria di un direttore d’orchestra le venature melodrammatiche di entrambe le opere. Mentre le luci di Max Mugnai disegnano con linee perfette, lynchiane, i contorni delle cose e dei corpi. Scena magnifica, specialmente nell’invenzione del finale, con le tombe cristalline riempite d’acqua dove, per un tempo che sembra spaventosamente reale, i non ancora morti galleggiano e lottano, prima che il sipario si chiuda definitivamente sui loro corpi addormentati.

Foto di Manuela Giusto

PagliacciI All’USCITA
da Leoncavallo a Pirandello

di e con Roberto Latini
e con Elena Bucci, Ilaria Drago, Savino Paparella, Marcello Sambati
musiche e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
regia Roberto Latini
produzione La Fabbrica dell’Attore – Compagnia Lombardi Tiezzi
con il sostegno del Centro di Residenza della Toscana (Fondazione Armunia Castiglioncello – CapoTrave/Kilowatt Sansepolcro).

Teatro Vascello, Roma, dal 29 settembre all’8 ottobre 2023.

Tournée:
Teatro Secci, Terni, dal 9 al 10 novembre 2023
Teatro Petrarca, Arezzo, 11 novembre 2023
Teatro Pacini, Fucecchio (FI), 17 novembre 2023
Teatro Puccini, Firenze, dal 19 al 20 aprile 2024
Teatro Elfo Puccini, Milano, dal 3 al 7 giugno2024.