Ma parliamo di Stivalaccio Teatro: nascono a Vicenza nel 2007 con Michele Mori e Marco Zoppello, poi li raggiungono Sara Allevi e Anna De Franceschi e nel 2017 l’organizzatore Federico Corona, a coprire da dentro quel ruolo indispensabile a una compagnia professionista. La professione, il mestiere nel senso più concreto e onesto, la tecnica, sono in effetti il pilastro di questo gruppo di comici colti e popolari, nutriti dalla tradizione della commedia dell’arte. Leggi tecnica e temi il tecnicismo, il digitale, l’esposizione della macchina, è un riflesso condizionato. Ma la tecnica di Stivalaccio è quella dello studio, dell’imitazione, dell’esercizio e prova, del gesto aggiustato, della presa del ritmo, dell’intonazione ricercata; è la tecnica artigianale per far bene, non quella per quagliare al minor costo. È tecnica che si vede nella linea della scrittura, nel corso dei dialoghi, nella legatura delle scene, nel dosaggio delle tinte e dei registri, nel tenersi stretta sempre la garanzia del tuo sguardo. E si vede nella scenografia e nella regia, sempre a servizio, mai fini a sé stesse, e naturalmente nella sopraffina arte dei comici.
Compagnia di grande proiezione nel tempo è Stivalaccio: fabliaux, novelle, intere commedie o canovacci, cronache fin dal Cinquecento sono i materiali recuperati, riattati, messi smaglianti nella cornice di un’opera-collage o riportati a vita contemporanea. Poi nello spazio: radicati, è vero, nel nord Italia, tanto da giovarsi nella produzione dei maggiori teatri della regione veneta e da partecipare alle celebrazioni per il quarto centenario del Teatro Goldoni a Venezia, ma con puntate fino a Nizza, Parigi, con conferenza annessa alla Sorbona, e una folle corsa in Colombia per Super Ginger di e con Anna De Franceschi. E ben piazzati anche al loro interno nell’impegno produttivo, con lavori da uno, tre, quattro, fino a nove interpreti e, ciò nonostante, distanti anni luce dai lutulenti carrozzoni drogati dalla iperproduzione e dal gioco degli scambi. Sempre alla ricerca e alla messa alla prova del palco di nuove esplorazioni: ora è la riscrittura della Mandragola machiavelliana, ora la riesumazione di Arlecchino muto per spavento di quel Riccoboni che fu maestro della pratica di commedia e tragedia tra Modena, Venezia e Parigi, ora un trittico metateatrale su Il Malato Immaginario, Romeo e Giulietta e Don Chisciotte.
A Roma, però, la compagnia vicentina non s’è mai vista. Pare che ne possiamo fare a meno. Perciò si va a Vicenza.
Sono i giorni più caldi di Be Popular, il festival che Stivalaccio, vincitore nel 2023 del Premio ANCT, mette su a casa propria e in cui mostra in chiostri e spazi pubblici della città non solo le proprie produzioni e l’esito dei propri laboratori, ma anche lavori e performance altrui. Vanno in scena due sue opere per così dire speculari, Buffoni all’inferno (2022) e Strighe Maledette! (2024), oltre alla Mandragola (sempre 2024), affidata alla Compagnia Giovani del gruppo.
Buffoni racconta di tre comici che, sospesa la pena infernale, sono convocati da Satana per intrattenere la grand’orgia di animacce che affolla le rive dell’Acheronte in attesa del trasbordo, in cambio di una giornata nel “mondo di sopra”, in Strighe seguiremo quattro donne accusate di stregoneria, rifugiate nella chiesa di San Giovanni Battista a Edolo – il fatto è Storia, anno 1518. I tre buffoni, Zuan Polo, Pietro Gonnella e Domenico Tajacalze incapaci di pescare nei rispettivi repertori storie edificanti, contravvengono alle indicazioni del Maligno e ripiegano su “pezzi” grotteschi, comici, sbracati, meritandosi il ritiro della promessa. Una pedana a centro palco è luogo deputato, pur non mancando anche alcune discese in platea, con il suo bravo siparietto a destra per permettere ai comici di mutarsi d’abito ove previsto. La forma è quella della raccolta di storie (sette dovranno essere, come i vizi capitali), legate attraverso i differenti generi dalla “cornice” del patto infernale – e le anime mortali siamo noi, seduti in platea, ora terrorizzati, ora coglionati dai tre guitti. Ma le storie sono tenute insieme oltre che della costruzione scenograficamente unitaria, da Zoppello, che per cucire tra di loro dallo stornello all’intervento dialogato col pubblico, dal pezzo en travesti al tradizionale processo carnascialesco a carico di bestie peccatrici, il somaro e l’asino, mette in campo una scrittura e una regia che integrano ogni forma senza normalizzarla, lasciando che schizzi dove deve schizzare, e soprattutto può confidare sull’arte di tre comici mostruosi (Matteo Cremon, Michele Mori, Stefano Rota), a cui pare niente sia impossibile, al cui carico non si può imputare un momento di distrazione o di scarsa lena, sempre tesi a un livello di comunicazione saturo senza fatica. Così, se l’uso del canovaccio, attorno al quale era arte dei comici il deviare, è oggi in qualche modo recuperabile, ciò accade attorno alla scrittura di Zoppello per opera dei tre attori, che tendono l’opera per il suo tempo, uscendone per accenni, rientrandovi ligi, soprattutto godendo della propria stessa opera eppur senza mostrare il minimo segno di compiacimento, né di faciloneria. Una gratuità del piacere fisico del sudore, della risata, del grido, del lazzo e del canto, dell’ammicco, del rimpallo a due, a tre: ora la comicità a sfondo sessuale della storia del Prete tinto, che cede alle lusinghe della moglie del tintore, ora il gioco linguistico tra latinorum e burla del boccacciano Fra’ Cipolla, ora lo straziante, cacofonico ultimo saluto del porco giustiziato dalla mannaia, che si augura che, almeno, lo si ricordi a tavola con «quanto era buono!».
Per Strighe non si direbbe diversamente: anche qui la struttura, ripresa sul piano scenografico dal carosello centrale, una pira sulla quale verranno bruciate dalla folla le fattucchiere (ma la scena non la vedremo mai, lasciata alla triste immaginazione dello spettatore), con l’Inquisitore a guidare le operazioni, che però ruota su sé stessa, e diviene giocattolo scenico praticabile, su cui ci si arrampica, si sale e si scende, si prendono attrezzi e materiali, dietro cui ci si cambia. La libertà di allontanarsi dal testo scritto, di esercitare quel gioco dell’elastico in completa sicurezza deve ancora essere affinata, e così qualche lungaggine potrà essere ulteriormente ripulita.
Insomma, questi due lavori di Stivalaccio si ritrovano l’uno nell’altro e condividono una forma a centone, stretta da una cornice, ma condividono anche il movimento centrifugo che da un baricentro si slancia a raggiera con le storie che racconta. Se in Strighe occhieggia un elemento blandamente civile o politico, una morale in senso costruttivo (le tre popolane rifiutano di denunziarsi a vicenda e affrontano il rogo assieme, in sorellanza, mentre la nobildonna De Rubeis prova a seminare zizzania e, fallito l’intento, se la dà a gambe), in Buffoni non c’è insegnamento o buona novella, il cinismo della morte e della vanità del tutto è sollevata solamente da un romorio di stomaci e viscere, la risata che pare tanto l’anima che il diavoletto Ninetto crede di poter cogliere, espulsa dal villano purgatosi col virtuoso beverone. Eppure di Strighe Maledette! uno spettatore non può che ricordare il privilegio di lasciarsi trascinare fuori in racconti inesausti, ora la leggenda nera di Lilith la rossa, vera prima donna, ora la tetra, gotica vicenda di Proserpina che dà alla luce il fischiante Demonio in un agghiacciante scalpitare di zoccoli, ora la storiella volgare del prete sedotto dalla tintora, che rende la meraviglia di un lavoro avvinghiato sul palco, centrato su di esso con il suo peso, in cui musica, canti, oggetti, tutto viene “da dentro”, ma in cui tutto sembra buttar fuori, scagliar verso l’altrove, il meraviglioso, il lascivo o lo spaventevole.
Stivalaccio, al di là dell’ottovolante dei registri estremi, è però anche capace di puntare a una più misurata medietas quasi goldoniana, benché sempre infarcita di lazzi e gag e trascinata dal meccanismo metateatrale, abbandonando “l’aura sanza tempo tinta” dell’Averno e la cupezza di una pira che arde all’alba tre donne innocenti e trasportandoci nella soleggiata Firenze della Mandragola di Machiavelli, riscritta da Michele Mori e recitata con energia e grazia e intelligenza scenica da un gruppo di attori giovani, allevati (anche) da Stivalaccio, compagnia nella compagnia. Siamo nel Cortile da Schio della Ca’ d’Oro, piccolo, quadrato, adornato da uno stupefacente glicine che dal fondo del palco si inerpica fino alle finestre del secondo piano e poi su, fino ai balconi del terzo, per i tre lati del palazzo. La commedia che vi si agisce è un piccolo gioiello, chiara come certe mattinate di primavera fiorentina, che lavora la trama machiavelliana con tutto l’armamentario dei comici dell’arte e dei funamboli. Ma non per questo, limpida e cristallina, si arrischia a forzarne le cuciture o stropicciarne la piega, anzi stretta stretta nella sua scrittura affilata, tesa verso l’obiettivo della risoluzione felice, cesella le miniature di un marito stolido e becco, di una sposina squisita come un biondo Capodimonte, di una servetta in fregola, ruspante, nervosa, di un Amoroso baritonale, impacciato e sanguigno, di uno zanni tutto inganni e appetiti, tra citazioni dantesche (non solo della Commedia) e l’ombra appena vibrante del mito orfico, quella paura di perdersi subito, appena ritrovati.
Ma pure, nonostante le differenze di ambientazione e “luce”, c’è qualcosa che queste tre opere condividono, a parte il linguaggio costruito sulla scorta di una rinfrescata tradizione popolare, a parte la formula dell’incontro di dialetti e pseudolingue, ed è lo spazio rappresentativo in cui si installano che poi diventa spazio culturale e postura ricettiva: i lavori di Stivalaccio Teatro sono impiantati in un luogo noto, agiscono in un perimetro rassicurante in piena consapevolezza, nonostante la follia che sono in grado di esercitarvi. Anche le interazioni con il pubblico non mettono in crisi il patto segnato attorno a quel perimetro, e lo spettatore può esercitare senza disturbo il suo ruolo di ascolto attivo e complice. Non è un ruolo così comunemente concesso, oggi, nel teatro d’arte, eppure questo modo di stare in platea compagni ma non correi, solerti ma non passivi, risiede quasi fisiologicamente in noi, sopito. E genera stupore sentirne l’attivazione al tocco familiare di quella campanella presente in tutti e tre i lavori a scandire ingressi in scena o cambi che ne rimescola la presenza atavica, al pari di una poesia mandata a memoria e dimenticata che torni a darsi alle labbra con il piccolo abbrivio di uno o due versi. Siamo lì per sospendere il tempo naturale, guardare, ascoltare, ridere, andare insieme, un atto collettivo la cui gratuita autenticità non sempre è facile recuperare.
Insomma, è per questo che si è andati a Vicenza – ma a Roma Stivalaccio con Romeo e Giulietta alla fine verrà, e sarà a ottobre, al Teatro Sala Umberto. Segnato?
Nota:
1) Biografie ricostruite in Marco Zoppello e Mary Salvatore (a cura di), Di buffoni e di strighe, Brenta Piave Edizioni, 2024. Si tratta del secondo volume di una serie di volumi che segue le produzioni della compagnia.