Nonostante la scomparsa di Carmelo Bene (1937-2002; d’ora in poi “CB”) sia avvenuta di recente, esiste già una considerevole letteratura critica sulla sua attività artistica e sul retroterra filosofico della sua poetica. Limitandoci ai libri usciti tra la sua morte e oggi, sono stati pubblicati più di quaranta volumi tra curatele e indagini monografiche, la cui più recente è Dentro ‘l mal de’ fiori. Il poema impossibile di Carmelo Bene di Alessio Paiano (Kurumuny, Calimera, Lecce, 2022; per uno spoglio completo fino al 2017/2018, cfr. Alberto Petruzzi, Carmelo Bene. Una bibliografia, Damocle, Venezia, 2018). Parliamo, dunque, di una media di due pubblicazioni per anno. Ancora modesta è l’attenzione sull’artista all’estero, che finora si è concentrata sulle sole traduzioni di alcune sue opere paradigmatiche: Nostra Signora dei Turchi del 1966 e l’autobiografia Sono apparso alla Madonna del 1983. Questa quasi-indifferenza da parte della critica estera è misteriosa, soprattutto in ambito francese, considerata la proficua collaborazione di CB con Gilles Deleuze per la stesura di Sovrapposizioni del 1978.
In ogni caso, sembra ragionevole sostenere che l’analisi dell’artista in Italia stia attraversando un vero “periodo aureo”. Due di queste monografie recenti che vorrei segnalare in tal sede sono Un femminile per Bene. Carmelo Bene e le Ma-donne a cui è apparso di Vincenza Di Vita (Mimesis, Milano-Udine, 2019; d’ora in poi “VDV”) e Carmelo Bene di Armando Petrini (Carocci, Roma, 2021; d’ora in poi “AP”). I due lavori sono molto diversi per impostazione e finalità di ricerca, ma sono anche in un certo senso complementari.
Il libro di VDV è la rielaborazione della sua tesi di dottorato, discussa nel 2014 presso l’Università di Messina, ed è un’indagine “ibrida”, a metà tra lo storico e il teoretico. Composta di soli due capitoli, la monografia ha una duplice direttiva. Da un lato (cap. I: Carmelo Bene: una vita d'(H)eros(es), pp. 19-54), VDV studia la presenza della donna in CB, che viene considerata come un «cardine principale del lavoro di Bene» (p. 16). Dall’altro (cap. II: Le fatine da amare, pp. 55-99), ella analizza il “femminile” beniano per comprendere più in generale il lavoro dell’attore e l’essenza dell’esperienza performativa, accennando anche ai potenziali contributi delle neuroscienze (pp. 11-14, 108-111). Si rivelano dunque molto interessanti, in tal senso, sia gli accostamenti (e.g.) tra il lavoro di CB con i “femminielli” di Federico Fellini (spec. pp. 50-55), sia lo sguardo alla ricezione dello stesso in artisti contemporanei come Angélica Liddell, Filippo Timi e Lady Gaga (pp. 88-99).
La donna o il femminile che emerge dalle analisi di VDV è studiata con un corpo a corpo con l’idea beniana della sacralità, dunque sotto il segno di una costante sovrapposizione di senso tra la sessualità e la mistica trascendente. Infatti, secondo quanto scrive l’autrice con una densa formula sintetica, «il femminile (beniano) è deriva del sacro e l’essere santi è apparire alla Madonna» (p. 85). La donna è perciò un tramite «paradossale» (p. 78) di cui l’artista si deve appropriare per diventare non semplice “oggetto” di una visione, ma “soggetto” di visione. Si aspira così, nella poetica beniana, a una sorta di epifania erotica, ossia alla «creazione di una scena-altare, sovrastata da un attore-posseduto» (p. 81). Se tale atto è definito «paradossale», è perché esso opera volutamente su una dissoluzione dei due generi sessuali codificati, giungendo a un’«ambiguità» di fondo, a un’androginia dell’agente artistico (p. 67). Come infatti l’uomo deve raccogliere in sé il femminile per diventare artista, sulla scia del precedente del teatro elisabettiano e shakespeariano che faceva recitare parti di donna agli adolescenti (pp. 17, 64, 75), così la donna deve contenere in sé l’elemento maschile per manifestare il potere del teatro (p. 70). La femminilità rimane, d’altro canto, più adatta come metafora ad incarnare il sacro perché tradisce, meglio della mascolinità, che l’eros è ispirato dal senso della «mancanza» (pp. 17-18, 62, 67), dunque è una pulsione a dirigersi all’infinito verso un “altro” da cui si può ricavare forza e appagamento (pp. 30-31, 78). Tale altrove che è cercato ostinatamente sulla scena beniana ha infine, secondo VDV, delle chiare ricadute politiche. La dissoluzione dei generi sessuali comporta di necessità anche un’infrazione dei codici rituali-civili che regolano lo Stato e, pertanto, frappone un ostacolo al docile andare dell’apparato statale (pp. 17, 76-77, 82, 104-107).
Per converso, il testo di AP è un agile volumetto di cinque dotti capitoli che intende offrire ai lettori un avvicinamento all’opera beniana e al suo sviluppo storico-poetico. La parte più ampia del libro (pp. 29-103) consiste nella ricostruzione dell’attività di CB degli esordi e degli anni Settanta, caratterizzati da una linea parodico-grottesca e dalla concezione dell’attore-artifex, o di un artista che sostituisce la mera ripetizione di un testo scritto con una «scrittura di scena» estemporanea, fino alla fase che potremmo definire come “de-costruzionista” (cfr. infatti le pp. 85 e 95), culminata nella Lectura Dantis. A dominare qui è l’estetica della phoné e della “macchina attoriale”, che pone un primato della «poesia della voce» sulla parola significante ed è animata dall’ambizione intimamente contraddittoria di dissolvere il linguaggio, il corpo e l’agire dell’artista rappresentandoli sulla scena: una sorta di negazione per iper-affermazione. AP propone, inoltre, che l’evoluzione in grande della poetica di CB si può riconoscere, in piccolo, nella trasformazione in «tre tempi» del Pinocchio, forse l’opera più sofferta e che «riflette in modo esemplare i mutamenti intercorsi nel percorso dell’artista» (p. 112). Tutto ciò è compiuto evitando, intelligentemente, il rischio della schematizzazione. L’autore sostiene, infatti, che la prassi parodico-grottesca dell’attore-artifex spesso anticipa gli accenti della successiva linea de-costruzionista, e viceversa che il de-costruzionismo beniano conserva tratti della graffiante attività degli esordi (cfr. in particolare le pp. 30, 82 e 116-117).
Il fatto che il volumetto di AP sia prevalentemente di taglio storico non deve indurre a concludere di trovarsi davanti a una semplice biografia ragionata di CB. Al contrario, l’autore compie nel capitolo iniziale (pp. 7-28) e tra le maglie dell’indagine biografica degli affondi teorici sulla poetica beniana. L’elemento forse più originale di AP è aver evidenziato che uno dei bassi continui di CB, o il sostrato che permane immobile dietro la sua attività, è la credenza dell’impossibilità della rappresentazione e il relativo carattere antagonistico del “teatro senza spettacolo” beniano (pp. 16, 71-72, 76, 82, 119), refrattario al consenso del pubblico e critico di ogni presunto effetto edificante della scena verso l’esterno, da cui discende (e.g.) la disillusione verso la catarsi tragica (pp. 77 e 100) e la rivoluzione sociale (pp. 53-55, 79). Se questo «antagonismo di fondo» assume una forma sofferta e critica nell’attività parodico-grottesca, esso si estrinseca in modo più distaccato e lirico – ma con la stessa radicalità – nella de-costruzione del linguaggio, del corpo, dell’azione. Si può così riscontrare, grazie ad AP, una lucida coerenza nel carattere essenzialmente incoerente di CB.
Questi cenni generali non rendono giustizia ai due ottimi lavori di VDV e AP – men che meno alla magmatica poetica beniana da loro indagata. D’altro canto, la ricchezza di questi due oggetti di studio non può essere esaurita nello spazio angusto di una recensione. Vorrei perciò concludere questa mia segnalazione bibliografica con un compromesso, ossia soffermandomi brevemente sul modo in cui VDV e AP affrontano un altro pensiero decisivo di CB, rimarcando così la differente impostazione dei due lavori: il «cretinismo». Come è noto ai frequentatori della poetica beniana, si tratta di una provocatoria riflessione contenuta in Nostra Signora dei Turchi, in cui si distinguono due generi di cretini: quelli che vedono la Madonna, compiendo così atti o «voli» straordinari senza alcuno sforzo (e.g. i santi), e quelli che «non la vedono (…), negati al volo, eppure volano lo stesso», a cui sono da ricondurre gli artisti della scena (e non) che inseguono un ideale impossibile. VDP e AP danno di questo celebre episodio una differente chiave di lettura.
La prima presenta la sua interpretazione nel paragrafo Per un Bene cretino del secondo capitolo (pp. 94-99; ma cfr. già la p. 63). VDV ritiene che gli artisti che «non vedono» la Madonna e quelli (beniani) che vogliono apparire alla Madonna sono due facce della stessa medaglia. L’avvenimento artistico è, in tal senso, descritto come un processo di auto-santificazione, che coincide con una profanazione. L’attore non ha più bisogno di un dio, perché esso stesso aspira ad essere un dio. AP accosta, invece, il “cretinismo” di CB alla sua visione del genio e, dunque, calca più di VDV la dialettica beniana tra aspirazione all’ideale e caduta nel fallimento (pp. 62-63, 81). Se la genialità si distingue dal talento, che «fa quel che può» e non «fa quel che vuole» (pp. 10-11), ne segue che coloro che «vedono la Madonna» sono persone di talento, proprio perché fanno opere straordinarie di propria volontà, mentre quelli che «non la vedono» sono persone geniali, in quanto falliscono nell’esercitare la propria potenza sulla realtà. Il risultato è che il cretino di CB diventa, di nuovo, una figura antagonistica: egli esige qualcosa di più dal reale e paga con la morte questo suo sforzo di anticonformismo.
L’analisi del cretinismo è, tuttavia, solo uno dei numerosi aspetti controversi della poetica beniana che sia VDV sia AP aiutano a decifrare. Si lascia, al lettore interessato, di scoprire ulteriori elementi di interesse che questa recensione ha dovuto lasciare nel non-detto.
Vincenza Di Vita, Un femminile per Bene. Carmelo Bene e le Ma-donne a cui è apparso, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2019, pp. 126, euro 12.00.
Armando Petrini, Carmelo Bene, Carocci Editore, Roma, 2021, pp. 128, euro 13,00.