I bambini fanno paura. Non lo ammetteremmo mai, ma c’è qualcosa in loro che ci spinge a tenerli da parte, a disattivarli, rendendoli simili a noi. Non serviva questa eccezionalità da Covid per riscontrarlo – bambini asintomatici che sciamano con la loro oscura carica virale, toccano ogni cosa, strappano baci a vecchietti incoscienti; bambini impossibili da incapsulare nelle buone norme di sanificazione. La scuola li distanzierà, li benderà con le mascherine, imporrà distacco, magari indifferenza, salvo rispedirli il prima possibile a casa, in una tranquillizzante quarantena.
Ma anche prima di questa recente prova, i bambini facevano paura nella loro imprevedibile totipotenza: ecco perché erano sottoposti al nostro stile di vita, ai nostri appuntamenti e attività a orari stringenti, tempi liberi e non, consolazioni, dipendenze, sostituzioni, tecnologie. Lessico. Anche in molte delle pedagogie degli ultimi decenni, di fatto neopositiviste, si nota in generale l’impostazione a un dialogo su di loro e con loro costruito estrinsecamente, che spostando il discorso su un piano di osservazione tecnicistico, come una serie di regole da applicare, una tabella di marcia da seguire, gli taglia le gambe, li mantiene succubi di teorizzazioni particolaristiche, e in fondo ce li fa tranquilli, distanti, indifferenti. Ma almeno non pericolosi, non “contagiosi”, placa quel loro appetito che ci sconvolge.
Persino quelle visioni che rifiutano i livelli, che propongono una sorta di spianamento dei rapporti tra adulto e bambino rispondono a una simile paura. L’adulto “facilitatore”, non più maestro, non più “grande”, può allentare la tensione di un ruolo che nessuno si sente più in grado di sostenere senza la garanzia di una forza data a priori, e mostra la strada di una pseudo-democrazia della deresponsabilizzazione.
Ma leggete il libro che Chiara Guidi e Lucia Amara hanno dato alle stampe con Luca Sossella Editore, e vi troverete vertiginosamente indietro – come in un’illustrazione di Gustave Doré, come in un sanguinoso ammonimento dello Struwwelpeter – e vertiginosamente avanti, in un mondo in cui il dialogo sia dritto ma non semplice, e in cui l’esperimento democratico è davvero tentato. La fiaba, la paura, il peso della materia, la scoperta, il dialogo riappaiono liberi di quella rimozione dell’infanzia così evidente nel nostro presente.
Chiara Guidi, che pedagoga tecnicamente non è, pur nel rifiuto di una posizione di chi impartisce verità dall’alto, e mostrando un rapporto non pacificato con il concetto di scuola, non delinea per sé, nel suo Teatro Infantile, una figura troppo diversa da quella dell’appassionata maestra, quella che non si china alla lallazione del suo pubblico ma nemmeno impone un dialogo/diagnosi asciutto nelle sue misurazioni, scadenze e relazioni. Un’energica piccola maestra che, rimanendo ben eretta, tende la mano al bambino, lo guarda negli occhi imparandone lo sguardo, e lui, l’infante, sembra sollevato, e poi fluttuare in un liquido denso e ondoso. Che è poi il teatro di Guidi e della Socìetas.
Teatro infantile. L’arte scenica davanti agli occhi di un bambino, a cura di Cristina Ventrucci è diviso in due parti. La prima, a sua volta tripartita, ruota attorno ai taccuini e agli altri appunti che Chiara Guidi ha steso durante i tre anni, dal ’95 al ’98, della Scuola Sperimentale di Teatro Infantile (SSTI) di Cesena, segue il racconto dei principali spettacoli progettati per i bambini e si conclude con una rapida descrizione del cosiddetto Metodo errante, con il quale alcuni di quei lavori sono stati elaborati. La seconda parte è un ricco, denso tentativo esegetico di Lucia Amara, che confrontando una frastagliata ed eccentrica bibliografia con il lavoro della regista, tenta una ricognizione teorica costruita sulla libera analogia degli stimoli, sull’emersione di relazioni ed echi, senza giungere mai a una teorizzazione conclusiva, in qualche modo stabile – come se parte di quel Metodo errante sia stato applicato in questo stesso studio.
Così noi, aiutati dalla sua lettura, e mimando il gesto di chi gettasse alla cieca un amo nell’oceano del Teatro Infantile, largo trent’anni e profondo quasi venti spettacoli, possiamo tirarne in secca alcuni temi che il lettore approfondirà e intreccerà con gli altri, durante la lettura, che gli consigliamo, del volume.
Gli animali, ad esempio: il rapporto dei bambini con gli animali è «tipico appannaggio dell’età infantile, qualcosa di una relazione che non apparirà mai più». Ed è vero, tanto che i bambini imparano a parlare imitando i versi degli animali, e che una figura tipica del rapporto tra adulto e bambini, con tutte le sue connessioni morali, sociali, è quella, pure ricordata dalle autrici, del Pifferaio di Hamelin il quale, tradito dai cittadini dopo aver liberato il borgo dai topi, allontana per sempre i bambini dalla città, conducendoli in un oltremondo ignoto e sottraendoli di fatto sia alla normalità che alla malvagità del mondo “solito”. Così gli animali sono sempre presenti nei lavori di Guidi per l’infanzia, a partire dal lontano Le favole di Esopo, del ’92, fino all’ultimissimo Edipo. Una fiaba di magia in scena a Cesena e al Napoli Teatro Festival 2020. C’è educazione alla socialità, nel rapporto con gli animali, c’è lo stupore, l’ammirazione e l’imitazione per questa incredibile diversità (come lo spaventoso toro in carne e ossa, o il cavallo Corsario, a cui gli allievi della Scuola Sperimentale dovevano provare a rassomigliare: «Oggi tu sei un cavallo!»). E c’è anche l’orrore, c’è l’evocazione di una voce “altra”.
La progettazione, poi: quanto nel teatro per bambini va scritto e previsto? Quanto invece permette di essere messo in piedi solo dopo che il primo passo è già stato fatto, come se si stesse scolpendo grado a grado una scala nella roccia? Guidi dice chiaramente che della sua SSTI ha immaginato solo il primo giorno, e da quello in poi ha pensato il secondo, poi il terzo e così via. Ma d’altra parte ricorda come sia stato necessario prevenire, nell’applicazione del Metodo errante, «il pericolo di scadere in un semplice gioco di improvvisazione», tentare di prevedere gli scarti che la presenza di bambini avrebbe potuto provocare nello svolgimento del lavoro. Questo tra previsione e presenza, tra tabella di marcia e deviazione, tra controllo e abbandono è l’equilibrio arduo e instabile della costruzione, dell’educazione (di nuovo la scuola fa capolino), fra sguardo avanti e quell’“esserci” che, come ci ricorda Amara, deve venir prima dell’essere.
La difficoltà, infine: ai bambini non è risparmiata, non è nascosta. La difficoltà per i giovani allievi della SSTI dell’ingresso nello spazio teatrale, sorvegliato da un guardiano liminare, che esige una parola chiave o la risoluzione di un enigma; la difficoltà di penetrare poi negli altri ambienti costruiti nell’ex Scuola Industriale Comandini di Cesena (la scuola, di nuovo), separati tra loro da un diaframma che va lacerato, e l’addetto è scelto a sorte; la difficoltà dell’incontro con la materia sconcia della carne, persino morta, i polli spennati appesi, il pesce di otto chili da frugare nelle viscere con gesti di avidi aruspici; la difficoltà di decifrare messaggi in una lingua sconosciuta, di ripeterne i suoni per scovarvi un senso, quella di sconfiggere i cattivi con la forza, di sprofondare nella terra; la difficoltà di star soli, lasciando i genitori, la rassicurazione fuori della porta, lentamente immergendosi nel gesto di lacerare stoffe, come nella Terra dei lombrichi.
E, dall’altra parte del gioco, la difficoltà del lavoro di chi, come Chiara Guidi, non rinuncia mai a dare vero corpo alle immaginazioni e alle fantasie, senza limitarsi a suggerirle semplicemente, poiché le parole sono cose.
Ma questa è, a pensarci bene, una delle caratteristiche cardine del lavoro di tutti i membri della Socìetas attraverso gli anni, una radicalità della materia, un ricorrere sempre alla materia per indicare qualunque cosa, dal tracheotomizzato del Giulio Cesare al pianoforte in fiamme dell’Inferno, ai corpi ustionati del più recente Flauto Magico di Romeo Castellucci, con totale esenzione da soluzioni di comodo.
In un momento in cui sembrano essere l’immaterialità e la facilità le uniche strade economicamente, socialmente proponibili, questo generoso dispendio è stato e deve continuare a essere un insegnamento valido anche per noi, gli adulti. Così com’è prezioso questo impegno al tenere il gioco – a tenere davvero “in gioco” – lo spaventoso universo che sta dentro a un corpo di bambino, a vincere la paura della sua potenza totale di «germoglio».
Chiara Guidi, Lucia Amara, Teatro infantile. L’arte scenica davanti agli occhi di un bambino, a cura di Cristina Ventrucci, Luca Sossella Editore, Bologna, 2019, pp. 175, euro 18,00.