
Se abbiamo ora in mano un libro che comprende tre monologhi per il teatro di uno scrittore di origini triestine, Mauro Covacich, (e cioè Trilogia triestina. Svevo Joyce Saba) molto lo si deve al Politeama Rossetti di Trieste Teatro Stabile del Friuli-Venezia Giulia, e al suo direttore Paolo Valerio. I tre monologhi interpretati sulla scena dall’autore stesso, su precisa proposta del direttore artistico del Rossetti, hanno avuto non poche repliche in diverse “piazze”, a partire dal 2021 con l’allestimento di Svevo, per la regia di Franco Però; poi nel 2022 con quello di Joyce a cura di Massimo Navone, e infine nel 2023, con la messa in scena di Saba, curata da Alberto Giusta. Il merito di tale operazione va riconosciuto sia per la volontà di promuovere un testo italiano di autore vivente, sia per la scelta della “committenza” di uno scrittore triestino; quindi, radicato in una tradizione locale sì, ma dal valore assolutamente nazionale, e non solo: opzione che dovrebbe essere uno dei compiti fondamentali dei teatri stabili italiani, e che potrebbe accrescere il numero di spettatori davvero motivati!
Come asseriva il compianto grande studioso Ferdinando Taviani, tutto ciò che di scritto proviene dalla o va verso la scena teatrale entra a far parte del cosiddetto «spazio letterario del teatro»: testi drammatici, copioni, regie scritte, ricordi, memorie, recensioni, saggi critici, ecc. Dal canto mio aggiungerei, a tali scritture, l’aggettivo “valide”, ovvero riconosciute come necessarie, da ricordare per future generazioni, esemplari per la professionalità, riconosciute dai vari fruitori (spettatori, studiosi, studenti, insegnanti, semplici lettori): sempre vigendo la consapevolezza dell’indeterminatezza di cosa sia esattamente il “valore” del teatro in sé.
Ebbene, nel leggere il testo in tre parti (i tre monologhi succitati) di Mauro Covacich mi son trovato in mano una scrittura che dapprima era stata preparata a fini scenici, poi rappresentata sulla scena teatrale concreta con interprete il loro stesso autore, poi nello scorso mese di febbraio del corrente anno costituente un agile piccolo libro di 106 pagine edito, per la collana “i Delfini”, da La nave di Teseo.
L’Introduzione, scritta da Covacich stesso, è molto utile per comprendere ragioni, aspirazioni, aspettative di un’operazione che per l’autore è stata «Un viaggio sul posto, ecco il punto, un viaggio dentro quella che aveva tutta l’aria di essere la pancia di una balena.» (p. 11). Lo ricordo perché devo affermare per onestà intellettuale di non aver visto i tre spettacoli relativi, nella concreta materialità della scena teatrale, anche se la Rai mi ha permesso col servizio Rai Sound di ascoltare le tre performances. Da ciò il mio approccio si è diretto proprio verso un’opera appartenente allo spazio letterario del teatro, aspettandomi (data la conoscenza da parte mia di uno scrittore affermato, vincitore di importanti premi, saggista acuto e sensibile) di leggere testi interessanti, ben scritti, piacevoli. E così è stato.
Un aiuto importante me l’ha dato la Introduzione, dove si sottolineano almeno tre aspetti davvero significativi: il primo consiste nel sentire attuata da parte di Covacich, dopo varie prove e verifiche, «la fusione tra persona e personaggio», l’essere attore del proprio racconto, racconto di un «uomo», non di un professore, o di un saggista. Il secondo è il riuscire a imprimere una consistente traccia di oralità al testo scritto, in modo che lo scorrere delle battute non abbia la pesantezza di una lezione, mirando più alla veste di spettacolo, nel desiderio che la parola dello scrittore-attore rispetti il più possibile le aspettative degli spettatori. Il terzo è l’essere riuscito a delineare nel racconto le personalità di Svevo, Joyce e Saba, quasi come l’autore stesso fosse stato testimone delle loro vite, quasi più che lettore delle loro opere, inserendoli in un macrocosmo intessuto di varie nazionalità, lingue, dialetto, eventi storici di fondamentale importanza, e dove si intrecciarono rapporti umani fra i tre stessi grandi scrittori. Ne deriva che non sarebbe fuori luogo inserire in un rinnovato Baedeker cultural-letterario-esistenziale i nostri tre “grandi”, come già da tempo lo fanno per i turisti camminatori le statue bronzee che ce li ricordano lungo le strade triestine, presenze tra l’apparizione fantasmatica, la nostalgia di un tempo e di tante vite che furono, l’ineluttabile dimenticanza magari involontaria.
Data la natura di questo libro, costituito da tre monologhi canonici per il teatro, contrassegnati da varie didascalie indicanti sia elementi scenici molto essenziali, sia movimenti e gestualità per l’autore-attore, e, assieme, costruito per far memoria di tratti caratteristici delle personalità umane, coi loro limiti psicologici, etici, ma anche con le loro ricchezze interiori, preferisco lasciare al lettore la scoperta personale dei vari significati e delle suggestioni che ne promanano. Ciò che voglio senz’altro sottolineare è che il testo ha tutti i presupposti formali, strutturali, estetici, per far pienamente parte della “letteratura teatrale italiana”; di un sottogenere che, purtroppo, da pochi anni non è più disciplina universitaria autonoma; una disciplina che voleva indicare quei testi che o prima o dopo eventuali rappresentazioni sceniche, erano comunque meritevoli anche della sola lettura, appunto, per il loro valore letterario.
Mi limito, per chiudere, a formulare poche considerazioni di grande interesse, monologo per monologo.
Nel primo dedicato a Italo Svevo tra i vari aspetti l’autore mette in rilievo anche quello linguistico comune a più generazioni di triestini, ma in Svevo (Aron Hector Schmitz) ancor più complesso: lingua tedesca, dialetto triestino, italiano standard molto scolastico, costituiscono una identità linguistica non precisa, difficile, una miscela tale che Covacich si chiede ancora come possa essere La coscienza di Zeno un’opera di narrativa di assoluto rilievo anche oltre la letteratura italiana stessa. Anche nel secondo monologo dedicato a James Joyce la fa un po’ da padrone la dimensione linguistica, ma non per esercitare su di essa sproloqui analitici anche pur inappuntabili, ma per “sentire” come nell’esistenza umana forse vien prima la parola, la lingua, magari quella dell’inconscio e del sogno a determinare le nostre modalità esistenziali, spesso dominate da una sorta di CHAOSMOS (definizione-titolo di un’opera del nostro grande regista Eugenio Barba): ciò anche nel caso dello scrittore irlandese, e soprattutto per le sue esperienze “basse”: il frequentare i casini, il bere, (in Svevo il fumo…). Infine, nella parte dedicata a Umberto Saba la scrittura dialettale, il dialetto come lingua della vita, può determinare una sorta di rinascita, più che un ritorno alle origini etnoantropologiche, dopo una vita contrassegnata dal dolore, dalla inquietudine, dalle nevrosi, soprattutto.
Per tutti e tre i grandi autori Covacich segue un percorso di riferimento al corpo umano e ai suoi organi, o alle sue parti: per Saba, in particolare, i riferimenti sono tre, non di tipo organico o fisiologico, in verità: lo STILE, cioè, far le cose a regola d’arte; la TESTA, che vuol dire essere un prestigiatore del proprio stile per merito dell’intelligenza; e il CUORE, la difficilissima “semplicità” che permette a tutti noi di cogliere la vera poesia, con tutto il suo calore.
Mauro Covacich, Trilogia triestina. Svevo Joyce Saba, La nave di Teseo, Milano, 2025, pp. 106, euro 14,00.