Un uomo se ne va. Lascia in silenzio i suoi passi, la sua ombra. Lascia in un attimo un’intera vita chiudendo un cerchio, mettendo un punto e definendo, per sempre, la propria missione su questa terra. Un uomo lascia una casa, gli oggetti che ha toccato, di cui si è servito, lascia i suoi libri, i diari, le penne, quel po’ di inchiostro con battute iniziali e finali; lascia foto, scatti, immagini in cui magari ha dovuto ridere per forza o naturalmente; lascia in un sospiro ultimo la sua eredità, le coordinate che ha studiato ogni giorno del proprio cammino, quelle che ha condiviso con altri; lascia la bussola del tempo e, insieme a questo, i pensieri, i crucci, gli affanni, le rughe che non nascevano solo per il sorriso. Lascia, come solitamente si usa dire, “un vuoto”. E allora i conti non tornano più quando anche la lancetta dei secondi si ferma. Quando quel passo era l’ultimo che ha congelato un cammino. I conti non è più possibile imporli se non si ha più carta per dimostrarli e più voce per urlarli. E allora altri conteranno i passi che hanno lasciato, gli occhi degli altri che non hanno più guardato. Conteranno le camicie che non hanno sudato. Insieme conteranno ancora la vita che si muove nonostante il silenzio fra gli alberi in un mare di verde o tra le pagine di un libro lasciato su una scrivania o su quelle battute che nessuno più ha pronunciato. Gli altri conteranno perché eredi di una memoria come quel timbro della voce, di uno sguardo, aneddoti, la creazione insieme di un lavoro, visioni di spettacoli, tanti. Immagini, diari, fogli, appunti. La memoria. Una parola così piccola che contiene un universo intero: generazioni, calendari, secoli, decenni, anni. La memoria di quello che siamo stati che potrebbe offrire lo spunto per quello che potremmo essere. È allora doveroso portare avanti l’incompiuto dell’uomo che ha appena chiuso gli occhi per sempre e nel nostro “per sempre” ricordarlo in un tempo che corre, che va avanti nelle lancette di quell’orologio e che va riempito secondo la tradizione più semplice che fa fede alla vita fino poi a evolversi in diverse e molteplici sfaccettature che la mente umana ci consente in una comunione di intenti.
Il 22 e 23 luglio presso il Centro Teatrale Santa Cristina – luogo ameno immerso nella natura tra Gubbio e Perugia – si è svolto il Convegno Il filo del presente: il teatro tra memoria e realtà incentrato proprio sulla memoria e poi sull’evoluzione della drammaturgia in Italia e all’estero, ponendo interrogativi importanti intorno alle problematiche di un microcosmo che si riflette sul macro e di cui il teatro, nel corso dei decenni, si è fatto specchio. Come si può, dunque creare un testo, una drammaturgia? A chi ci possiamo ispirare se non conosciamo approfonditamente coloro che ci hanno preceduto? Chi era colui/colei che ha lasciato quelle pagine di inchiostro? E, ancora, come vengono assemblati tutti gli anni di vita, di lavoro, lasciati in disordine per restituirci l’intero ordine scandito anno per anno di un’esistenza?
È da quest’ultimo punto che ha avuto inizio il racconto di due giorni intensi e ricchi di confronti voluti da Roberta Carlotto (erede dell’Archivio Ronconi e direttrice del Centro Teatrale Santa Cristina, fondato nel 2002 assieme al Maestro e amico di una vita) e Oliviero Ponte di Pino che hanno magistralmente moderato e saputo intrecciare i vari panel di tutti gli incontri.
Rimettiamoci all’ultimo quesito: chi può gestire il disordine senza libretto di indicazioni su un’eredità lasciata? Gli archivi. Poco se ne parla, solitamente. E con grande fortuna abbiamo ascoltato e ci siamo relazionati, poi, nel momento delle varie pause – che si sono rivelate essere fondamentali per proseguire discorsi da approfondire fuori da un tavolo, tra una passeggiata in mezzo al verde che attornia il Centro Teatrale Santa Cristina, con scambi più diretti di curiosità – con gli archivisti italiani e stranieri che hanno saputo riportare egregiamente il lavoro svolto.
Doveroso iniziare con l’archivista Rossella Santolamazza, per anni responsabile del settore degli archivi di persone e di famiglie e, per questo, curatrice del riordinamento e dell’inventariazione delle carte di Luca Ronconi, nonché di tutti gli adempimenti amministrativi collegati al trasferimento del fondo documentario e della biblioteca presso l’Archivio di Stato di Perugia, dove sono attualmente conservati. Esiste la necessità di tenere uniti i segmenti del sapere perché questi vengano assemblati in un ordine necessario per poi restituirlo a chi vorrà continuare un dialogo con il regista e con l’uomo che Ronconi è stato.
In questo caso, a restituirlo è Giovanni Agosti che ha permesso di farci avere un’encomiabile testimonianza del maestro Ronconi raccolta in oltre quattrocento pagine di un libro, pubblicato da Feltrinelli, che consegna ai lettori l’immagine di Ronconi anche come genio al lavoro (su Liminateatri.it, si veda l’articolo di Katia Ippaso https://www.liminateatri.it/?p=990).
L’archivio di Luca Ronconi è stato un unicum speciale che ha costretto la Santolamazza a delle scelte azzardate. La studiosa sottolinea come il sito sia stato di grande supporto a dare una logica ai 173 faldoni e ai numerosi articoli, scritti dal 1913, con un nucleo di fondamentale importanza voluto dallo stesso Ronconi. Santolamazza ammette di non aver mai assistito prima a uno spettacolo del maestro ma, attraverso il lavoro certosino da lei stessa compiuto, ha immaginato oltre ogni singolo lavoro (dalla lirica alla prosa), comprendendo la grandezza dell’uomo e dell’artista trattato.
Allo stesso modo Sabrina Mingarelli, Dirigente del Patrimonio Archivistico della Direzione Generale degli Archivi, sottolinea l’importanza della figura dell’archivista come colui che sta dietro le quinte e che non impedisce di entrare in empatia con l’artista. Ma come gestire una pluralità di documenti teatrali che, a differenza degli altri, non possiedono una scheda tipo? Maria Ida Biggi, docente di Storia dello Spettacolo all’Università Cà Foscari e alla direzione dell’Istituto per il Teatro e il Melodramma della Fondazione Giorgio Cini di Venezia, risponde a questa domanda dichiarando e mostrando come nel sito della fondazione Cini questo sia stato possibile grazie all’organizzazione di seminari in collaborazione con le università e con costanti pubblicazioni scientifiche.
Un altro interessante occhio di bue viene spostato sull’archivio dello Stabile di Torino. Ad occuparsene è Anna Peyron, responsabile dal giugno 2017, del Centro Studi del Teatro Stabile di Torino-Teatro Nazionale, nato nel 1955 e evolutosi nel 2014 grazie a un finanziamento ottenuto dal Mibac. L’archivio permette la digitalizzazione, la possibilità di ricerca on line e la visione di filmati. Il tutto perché sia possibile a tutti, ma soprattutto agli attori e ai registi, di confrontarsi costantemente con la tradizione e avere il privilegio di vedere certe immagini per poi da queste trarne spunto.
Non solo contributi dall’Italia. Ospite dalla Francia, da Parigi, Emmanuel Barbeau, assistente alla direzione della Théatrotheque Gaston Baty (Université Paris 3 Sorbonne Nouvelle) per i progetti culturali. All’interno del sito non solo possiamo confrontarci con i video che la biblioteca in questione ha ottenuto, ma anche con i testi teatrali ricevuti dal fondo Baty, come quelli di René Stamegna, Piou Dahenne, François Iaccarino. Importante notare anche come siano conservati e consultabili i vari dossier a partire dalla fine degli Anni Cinquanta dalla Théatrotheque Gaston Baty.
Altro interessante contributo quello di Francesca Romana Rieti, inviata italiana all’estero, per la precisione in Danimarca, docente di Storie e Culture degli Spazi Teatrali al Dams dell’Università di Roma Tre e nel 2008, con Mirella Schino e Valentina Tibaldi, fondatrice dell’Odin Teatret Archive con cui tuttora collabora. Anche in questo caso è stata un’enorme impresa riportare ordine: Eugenio Barba ha sempre conservato tutto, sebbene sistemare e dare una logica filologica ai documenti sia stato un lavoro impegnativo seppure soddisfacente. Il sito Odin Teatret Archives non è un archivio online. Esso mostra il contenuto degli archivi dell’Odin Teatret attraverso una serie di esempi che forniscono scorci delle visioni, della storia, delle attività poliedriche della compagnia e della sua rete di relazioni che coprono un periodo di cinquant’anni.
Dopo le prime ore del Convegno, abbiamo tutti chiaro quanto sia necessario partire da ciò che non eravamo per l’esistenza di chiunque, per i cammini che non ci somigliano, ma che tutti accomunano in nome della storia da sfogliare, con ordine, con costanza, con occhi aperti. Perché il passato non è soltanto un’azione finita, compiuta. Bensì una eco nel presente che chiede di essere spostata nel futuro. Ed è per questo che, quando partecipiamo a uno spettacolo teatrale, assistiamo a un insieme di memorie, di rifacimenti. Giovanni Agosti chiede se sia legittimo rifare una rappresentazione che anni addietro ha avuto la sua risonanza. A tale quesito il regista Mario Martone risponde che l’esibizione artistica finisce nel momento in cui si compie e sottolinea quanto sia importante il processo all’interno del lavoro a cui anche lo spettatore è chiamato in causa per esserne parte attiva. Spente le luci sul palco tutto rimane attivo nella memoria dello spettatore. Come chiosa, dunque, l’archivio è necessario anche laddove uno spettacolo non può più riprodursi per scelte registiche o altri motivi.
Il secondo giorno di Convengo riprende dall’ultimo punto lasciato in sospeso e rafforzato dalla domanda se la realtà può o meno essere riproducibile nel teatro. C’è da tenere conto che il teatro affonda le radici in una serie di documenti che, abbiamo visto, sono appunto gli archivi. Le inchieste, le interviste, la psicanalisi e l’autobiografia sono i principali strumenti che consentono la ricerca e che permettono di smontare altri meccanismi. Infatti, tanti dispositivi teatrali usano degli effetti di realtà per mettere lo spettatore al centro dell’attenzione. Dunque, lo spettatore non è più passivo ma diventa attivo, consentendo, in taluni casi, la rottura del limine tra attore/performer.
È necessario capire come il lavoro del linguaggio si sia evoluto, specialmente quello drammaturgico. Testimoni Andrew Bovell, drammaturgo australiano autore anche di When the rain stops falling, e Gérard Watkins, attore e regista londinese nominato per un Molière nel 2017 per Scene of Domestic Violence.
Bovell vede il suo ruolo come narratore in contrasto con la nuova tecnologia. Infatti, per lui il teatro deve mantenere un ruolo di performance live immediato. Nasce come drammaturgo. Negli Anni Ottanta sviluppa uno dei suoi primi lavori in una residenza di una fabbrica di treni restandovi 18 settimane. Il fine era quello di raccogliere le vite delle persone, portando in scena lo spettacolo nei palazzi, nelle mense degli operai. Per i successivi trent’anni ha continuato a lavorare in altre realtà come quella di Madrid dove i suoi collaboratori non avevano alcun tipo di gerarchia: parliamo dei NoCollettive in cui artisti, autori, tecnici sono tutti allo stesso livello. In Spagna, l’autore si interessa alla guerra civile. Distingue la società in due categorie: quella che vuole distanziarsi dalla guerra per il futuro e quella che vuole tornare a guardare le ferite che essa stessa ha prodotto. Da qui parte un lavoro di indagine vero e proprio con interviste alle persone alle quali chiede se provassero vergogna (del proprio corpo o dei sensi di colpa inflitti dai parenti). Il risultato finale è stato parlare della guerra civile attraverso la vergogna. Nasce così l’opera El Jardín. Andrew Bovell struttura una visione del presente e del passato della Spagna Una visione tanto “acida” quanto scioccante e innegabilmente rilevante in questi tempi in cui le tombe, finalmente, iniziano a mescolarsi alle voci delle donne uccise, per essere ascoltate. Lisa Ferlazzo Natoli, autrice e regista, nel 2019 dirige When the rain stops falling, un romanzo teatrale che racconta la crisi di una coppia da cui nascerà una lunga catena di appuntamenti mancati. In questo processo sembra che nel passato il futuro stia sempre per ripresentarsi. Ci sono tematiche diverse come quelle tra padri e figli, il conflitto tra questi. È un testo fatto di incidenti, casi, meraviglie e gode di una scrittura autonoma. In esso, si percepisce la necessità di mostrare una società più sciolta come la pioggia (che fa cenno, metaforicamente, anche al problema del cambiamento climatico).
Gérard Waltkins sostiene che siamo passati da una società di manipolazione globale a una società “autoinflitta”. Tutto questo provoca dei cambiamenti radicali. Uno tra i tanti è la violenza, specialmente quella domestica, un tema che il drammaturgo ha voluto trattare partendo da articoli, testimonianze di assistenti sociali, di poliziotti, fino ad arrivare a un processo definito, proprio come Bovell. Dopo aver raccolto una smisurata collezione di fonti, Waltkins riparte da zero e stende la drammaturgia insieme agli attori. Questi ultimi sono in grado di creare un ponte tra il reale e se stessi, reinventando in continuazione fatti mai esistiti, eppure attinenti alla realtà per insinuare dubbi. Elena Serra, regista, attrice e danzatrice porta in scena Scene di violenza coniugale, prodotto dal Teatro Dioniso e PAV-Fabulamundi. L’artista sottolinea che in questo testo non è necessario raccontare la donna come vittima perché, altrimenti, la donna lo diventa sul serio. È un testo duro, gelido, senza sbavature che mette sotto la lente di ingrandimento i processi mentali e comportamentali della vittima e del carnefice. Nell’opera sono protagoniste due coppie appartenenti a mondi e a ceti differenti: una coppia di giovani immigrati in Francia dall’infanzia e una appartenente alla media borghesia. Ciò che accade sotto gli occhi di chi legge o assiste alla lettura scenica è la costruzione metaforica di una gabbia all’interno della quale sia i carnefici sia le vittime finiscono per rimanere chiusi, distrutti, dalla violenza esercitata e subìta. Lo spettacolo è un ottimo strumento di lavoro e di studio per gli addetti ai lavori. Per tali motivi è nata la proposta di una collaborazione con l’Ordine degli Psicologi della Liguria, sezione ligure della Società Psicoanalitica Italiana e con l’UNIGE (Università degli Studi di Genova).
Interessante anche la testimonianza di Fausto Cabra, attore teatrale e cinematografico che nel 2019 firma la regia de La Storia tratto dal romanzo di Elsa Morante. «È necessario mettere in scena un romanzo del genere», sostiene Cabra, dal momento che all’interno di esso c’è una macrostoria vista dall’alto e una microstoria vista dal basso. Entrambe risultano condizionate perché la Storia è, di fatto, un atto politico. Lo spettacolo non vuole sostituire il romanzo; unica sua pretesa è, piuttosto, di mettersi all’ascolto delle mille sfaccettature che l’opera restituisce. Prima di tutto quella dell’umanità in tempo di guerra e in tempo di pace.
L’intervento di Erica Magris, docente in Studi Teatrali presso il Département Théatre de l’Université Paris 8, risulta illuminante. Ella, infatti, mostra come il Teatro, dal 1919 ad oggi, sia cambiato in termini di tematiche, che vertono sempre di più sul sociale, sulla necessità di raccontare la “verità“, su un teatro-documentario – come nel caso di Weiss nel 1967 – che ha introdotto già dal 1929 anche la componente digitale (in quegli anni soltanto in ambito cinematografico) per enfatizzare il significato della pièce. Milo Rau è l’esempio finale della ricerca apportata con minuziosa cura. Infatti, il regista, giornalista, saggista e docente di teatro svizzero, cerca un teatro “reale” che provochi emozioni “reali”. Egli cerca la storia delle rappresentazioni e ne mette in scena eventi fittizi o no in grado di coinvolgere lo spettatore e generare empatia.
Torniamo a parlare di teatro documentario, sospeso tra realtà e finzione che indaga anch’esso le piaghe del contemporaneo con Helgard Haug, fondatrice del collettivo Rimini Protokoll. Nei loro lavori, il “personaggio” viene eliminato e sostituito da persone reali: lo spettatore diventa spett-attore.
Nicola Borghesi, attore, regista e drammaturgo dei Kepler-452, riprende l’importanza dell’archivio e prosegue il filo del non-attore, modalità con cui lui stesso insieme alla sua compagnia Kepler lavora. Non va a braccio, a differenza degli altri relatori. Ha un discorso scritto. Lo legge. Con cura e commozione. C’è aria di leggerezza, di voglia di dare un senso a questo mondo, di non giudicare ma di ascoltare. C’è voglia di imparare da tutti anche dai cacciatori di piccioni, dai pedofili, dai ladri, dai clochard. C’è voglia di dare voce a chi sa che può cantare un’ode che necessita di armonia. E questo si avverte mentre racconta la genesi dello spettacolo Il giardino dei ciliegi in cui il testo si sposa con la vita vera di una coppia che non ha bisogno più di una definizione nel sociale ma che sa definire la vita. I Kepler, racconta, anzi legge, indagano nella città di Bologna, rubano racconti, fanno tardi insieme ai narratori e, poi, si riuniscono per cucire l’idea di uno spettacolo da far indossare agli stessi “cantastorie”. Perché c’è bisogno di “scintille”, afferma Borghesi, un materiale che ci unisce su o fuori da un palco.
Riprende il filo della memoria Daria Deflorian, attrice, autrice e regista teatrale, vincitrice del Premio UBU 2012 come miglior attrice protagonista. Daria Deflorian pone un interrogativo: è necessario lavorare sulla realtà o occuparsi della realtà? L’attrice, insieme a Antonio Tagliarini e i loro attori portano in scena la memoria, intesa come materia continua da indagare. Essere attori vuol dire trasformarsi nel tempo. La questione della biografia è una reazione, qualcosa di extrartistico, che non li porta a rimanere agganciati a delle posizioni perché quando iniziano lo studio per un progetto partono da una “intuizione” che li attrae e che li porta a scavare per scoprire cosa c’è oltre. Gli attori si concentrano sulla “presenza” e su altre immagini che, se ripetute più volte, esaltano un problema, un male di vivere, un ricordo, dal momento che nel teatro non c’è attivismo, bensì “accadimento”
Si può portare un “accadimento”, frutto di raccolta di memorie, biografie, all’interno di una struttura “altra”? Paola Manfredi, insieme all’attore Dario Villa, ha dato vita alla compagniaTeatro Periferico con l’intento di mostrarsi sensibili nei confronti del teatro educazione, della memoria dei luoghi e del teatro di inchiesta con migranti, oggi attori. Anche Paola e Dario focalizzano la loro attenzione sulla memoria. Sulla raccolta delle esperienze di 100.000 pazienti che hanno abitato un manicomio, esattamente quello di Mombello (frazione di Limbiate), da cui prende il nome l’opera omonima della compagnia. Ci sono voluti due anni di ricerca, di ascolto, di studio delle cartelle cliniche. L’esito è stato uno spettacolo con attori professionisti all’interno dei corridoi dell’ex manicomio composto da azioni/suoni/rumori e da parole o frasi del gergo medico, anche le più ovvie. Testimone del lavoro, immenso, faticoso e toccante, è stato anche il diario che Paola Manfredi ha scritto e poi pubblicato come una sorta di archivio di lavoro a cui attingere dopo l’esperienza teatrale. L’ennesima prova di quanto documentare i giorni di lavoro sia inevitabilmente importante.
Il convegno si conclude con le testimonianze di Jacopo Gassman, Carmelo Rifici e Massimo Popolizio. Quest’ultimo, in disaccordo sulla modalità di fare teatro nel sociale, di cercare l’“accadimento” laddove è “naturale che esista” nel fare teatro, sostiene che «il problema principale sia quello di riempire una platea di 600/800 spettatori».
A chiusa di questo reportage di due giornate di notevole spessore, dove molti dubbi pervadono le nostre menti e dove possibili risposte, in parallelo, viaggiano accanto a noi, ho voglia di continuare a dare qualche risposta alla famosa domanda che mi tartassa da sempre: «Perché si fa teatro?». Non voglio, cinicamente, pensare che il teatro serva per l’applauso, per dare da mangiare a un “ego” o, ancora, per accendere i riflettori sul palcoscenico. In un centro – come quello voluto dal maestro Luca Ronconi e da Roberta Carlotto – in cui il tempo si ferma e rallenta la capacità di andare troppo veloci, alimentando la necessità di gettare uno sguardo sul presente, ho trovato altre piccole risposte, grazie all’ascolto, grazie al confronto. I drammaturghi, i registi, gli archivisti presenti hanno potuto dare voce a chi voce non ne ha più, a chi è ormai assente, a chi ha la lingua mozzata da un dolore troppo forte. A chi è rinchiuso tra le mura domestiche, in ambienti di lavoro dove ancora si muore, in rapporti familiari mai compresi, in corridoi bianchi dove il dolore “piange”, tra le strade di una Bologna in cui c’è tanta storia che somiglia al più classico dei testi teatrali, tra reminiscenze che esaltano i dubbi umani e che generano “accadimenti”.
La tradizione si evolve in altri linguaggi. La storia insegna a non rimanere fermi su basi che non ci possono realmente appartenere perché figlie di altri decenni.
Sono felice, personalmente, che esista un teatro-documentario, di denuncia, che si sposti sempre di più in luoghi “altri” che non siano per forza i palcoscenici, ma cantine, ospedali, piazze (ah la piazza!). È nostro compito, credo, fare in modo che il cerchio non si chiuda mai. È necessario lasciare una costante eredità di pensiero a chi verrà dopo di noi. Uno spunto e un augurio per andare oltre.