Sono molti i racconti che si intersecano nel nuovo libro di Gad Lerner L’infedele. Una storia di ribelli e padroni, prezioso caleidoscopio del tempo recente che si sostanzia di quell’architrave di pensiero egalitario ridefinito sul finire degli anni Settanta, quelli della sua formazione, e dove la struttura narrante si sviluppa come flusso auto-riflessivo filtrato da una soggettività ch’è il suo posizionamento, il suo sentimento politico. Qui Lerner sembra riprendere a più di dieci anni di distanza le fila del precedente Scintille. Una storia di anime vagabonde, dove il discorso si articolava con riferimenti biblici nell’esegesi ebraica, e quella che era una splendida immersione nella memoria ritraeva luoghi come ritratti sentimentali. Ne L’infedele lo spazio personale diviene invece anche spazio pubblico con un meccanismo di continua certificazione della realtà che tanto ricorda una prova di forza con la verità quale ipotesi da esperire alla Emmanuel Carrère. Lerner ci confida essere ancora impegnato in quella nebulosa piuttosto scarica di intuizioni e di gesti ch’è la sinistra italiana, col modus operandi proprio di un attivista alla ricerca di nuove emarginazioni e aggiornati sfruttamenti del potere sui più deboli a fronte di una destra armata delle solite e consunte motivazioni, rinnovate, queste, da arroganti esternazioni di un capitalismo finanziario senza scrupoli. Lo sguardo dell’autore si mostra nella legittimità di un intellettuale che, seppur “scomodo”, gode di una posizione consolidata nell’establishment del giornalismo nazionale, si racconta in trasparenza nelle vesti di un benestante, quale è, dichiarandosi comodo dentro quel benessere (borghese si diceva una volta). Però ancora curioso delle sfumature, delle varianti, dei dettagli dell’intelligenza del pensiero attento osservatore dell’umano: dal sindacalista di turno all’industriale illuminato, sono tanti gli incontri, che si dispiegano in questo scritto, una serie di frizioni politiche concatenate a una deviazione del “reale” sulle cose, ormai allo scoccare dei sessantasette anni di età, regalandoci una sensibilità sorprendentemente acuta nell’interpretare il nostro di tempo, mai appiattito sull’“io”, che pure gioca una parte notevole nel suo porsi al mondo. E nel flusso ininterrotto che, si diceva, sceglie la forma di un romanzo-saggio sezionato per capitoli e sezioni interne che danno il “senso” degli orizzonti che si vogliono connettere, come scatole cinesi, una consequenziale all’altra e allo stesso tempo rimando, eco dell’una nell’altra; sono capitoli-pretesto in cui Lerner cerca ripetutamente di prendere per mano il lettore con sincera complicità colorando i fatti di evidenza letteraria nella intrinseca verità.
E in questa lettura storica di eventi personali o sociali, l’attualità attanaglia il respiro del racconto, contrae un tempo sempre più dilatato nella sua progressione epocale e qui, in uno spazio-tempo appunto in soggettiva, troviamo la città santa di Zfat in Israele, i movimenti di massa messianici chassidim, Mao Zedong e il cinismo di Saul Bellow, Giangiacomo Feltrinelli e Carlo De Benedetti, Trockji e Yitzhak Luria, Giuliano Ferrara e Abulafia, “Il Foglio” e “Lotta Continua”, Goffredo Fofi e Walter Veltroni, Yosef Hayim Yerushalmi e George Soros, don Luigi Ciotti e Carlo Verdelli, Marco Travaglio e Mario Giordano, la Resistenza e Laura Gnocchi, Philip Roth e Ibrahima Niane, il sindacalista di origine senegalese (nero, e non “di colore”, per favore Lerner!), gli operai e la Fiat, insomma l’inventario di una a dir poco frastornante ma colta tessitura di segni, luoghi e nomi (e questi sono soltanto una parte dei nomi e delle questioni poste, ma molto, molto altro si intreccia in questo libro fatto di stratificazioni letterarie, un po’ warburghiano nell’esposizione concettuale e un po’ L’Aleph di Jorge Luis Borges nell’inanellare l’andamento degli argomenti); un libro che incornicia un intellettuale consapevole delle proprie fragilità, come lo stesso autore ci dice, «se in questo libro esibisco spudoratamente le mie debolezze personali è perché le trovo rappresentative della più generale debolezza della sinistra. Non ce l’hanno insegnato le femministe che bisogna “partire da sé”? Pago il prezzo dell’esibizione per cercare di spiegarmi le ragioni di un distacco doloroso: la sinistra senza operai».
Ma qual è allora il tracciato nel quale ci guida, di quali storie ci mette a parte? Se il funerale del padre con tutto il portato problematico di incomprensioni e conflittualità è l’innesco per una ricostruzione biografica professionale e personale dove l’ebraismo, vissuto in quel moto che è al contempo di una civiltà e di una religione, motivata continuamente in un “interrogarsi” laico, un guardarsi con ragione sul proprio ruolo, sul compito che si è scelti in questo mondo, al di là della Halacha, sempre all’interno della “siepe” ebraica, Lerner sceglie di muoversi (con qualche licenza, ovviamente) a proprio agio nelle contraddizioni che offre alla lettura. La sinistra e l’ebraismo, dunque. La prima come campo d’azione sin dalla giovane età, l’altra quale appartenenza e riflesso etico dove ritrovare i significati di un messianismo collettivo, un sovvertimento dell’ebraismo rabbinico come lo chiama (e a noi torna a mente il Michael Walzer di Esodo e rivoluzione). Di Gustav Landauer e di Martin Buber ne condensa il pensiero quando scrive che «l’umanità degli oppressi può e deve, dunque, trasformarsi in un messia collettivo, realizzando in prima persona, senza attendere il pur necessario intervento dall’alto, la speranza della redenzione», delineando così una salvifica condizione esistenziale laddove la revisione del marxismo riesce a transitare per la tangenziale della «scoperta del messianismo come radice dell’idea rivoluzionaria». Attesa come gesto? Nel tempo a Lerner viene rinfacciata una esibizione disinvolta di frequentazioni disparate – nulla di problematico o indelicato – ma gli viene rimproverata sui social e su testate orientate evidentemente a destra l’incoerenza “politica” che lui prova a smontare, fugando l’ovvio, la lettura banalizzata della complessità dell’esistenza e allertandoci del rischio del riproporsi dello stereotipo: infedele in conseguenza di ciò, infedele alla monumentalità dei luoghi comuni.
Quella esibizione di sé viene rimarcata proprio da “Il Foglio” e Lerner ne riporta interamente l’articolo titolato Dove c’è un principe c’è Gad. Chapeau! Noi, a fronte di un libro bellissimo e dove in più parti si auspica un nuovo ordine culturale ed economico e dove vi si rintraccia un respiro “differente” non possiamo non ricordarci però, ricordare a noi stessi, che in questa adesione nell’aspirare a un nuovo ordine aspireremmo, comunque, per citarne una, il superamento dell’inquinamento dei mari abolendo barche che sventrano gli habitat marini, anche quando sopra queste possano farsi piacevolissime conversazioni sorseggiando dell’ottimo vino e guardando il paesaggio, a sinistra.
Gad Lerner, L’infedele. Una storia di ribelli e padroni, Feltrinelli, Milano, 2020, pp.256, euro 16,00.