Abitudine ormai scomparsa e per molti forse oggi un po’ ridicola quella di affidare ad un foglio i nostri pensieri più intimi e indirizzarli a qualcuno, insomma scrivere delle lettere. Anche Pessoa in una poesia usò l’aggettivo “ridicolo” per definire le lettere d’amore, ma nel verso successivo scrisse che ad essere ridicoli sono proprio coloro che non le hanno mai scritte.
Questo isolamento è forse una bella occasione per riscoprire il fascino di un gesto così antico, che non è solo comunicazione con l’altro ma anche momento di meditazione e di riflessione con se stessi. Ricordo che una mattina, alle elementari, la maestra Luisella si presentò in classe con una cassetta della posta di legno blu notte. Quel giorno iniziò per tutti noi una nuova avventura, una corrispondenza epistolare. Ripensandoci ora, quell’idea fu geniale perché ci assegnava una responsabilità molto grande per la nostra età: la parola. In poco tempo, attraverso quel nuovo scambio, mi resi conto di quanto quello strumento fosse potente. Con le parole potevi ferire, dichiarare il tuo amore, stringere un patto o romperne uno, fare pace o al contrario provocare una lite. Grazie a quella corrispondenza imparai che le persone sono più coraggiose quando scrivono. La lettera mi apparve subito per quello che è veramente: una confessione, uno spazio intimo che creiamo per accogliere l’altro. Leggendo le prime lettere fui trafitta dalla verità, specialmente quella volta in cui un’amica mi accusò di gelosia. Sono certa ancora oggi che non mi avrebbe mai rivelato niente di simile a voce. Di quello scambio, ciò che mi stordì di più fu la distanza tra le nostre parole racchiuse in quei fogli e i nostri comportamenti in classe. Eppure sapevamo benissimo che qualcuno quelle frasi prima o poi le avrebbe lette ma ciò non contava. Avevamo finalmente trovato un modo per essere sinceri e non volevamo rinunciarci. Questa libertà di espressione, che la scrittura della lettera concede, emerge con forza nella famosa Lettera al padre di Franz Kafka. Lo scrittore ha sempre vissuto con terrore la figura del padre e non è mai riuscito ad aprirsi con lui. Prova a farlo in questo lunga confessione, che inizia così: «Carissimo padre, di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito non ho saputo risponderti niente, in parte per la paura che ho di te e in parte perché questa paura si fonda su una quantità tale di dettagli che parlando non saprei neppure coordinarli passabilmente». Le lettere di Kafka, compresa questa indirizzata al padre, fanno pienamente parte della sua opera, anche se egli non pensa affatto di pubblicarle. Al contrario pensa di distruggerle, come vorrebbe fare con gli altri suoi scritti, tanto da ordinare all’amico Max Brod di bruciare tutti i suoi manoscritti.
La lettera, oltre a infondere coraggio in chi scrive, è da sempre anche una grande forma di consolazione per chi è separato dai propri affetti, come chi è esiliato. Quanti carteggi sono stati scritti in questa condizione! Penso a quelli di Cicerone, di Rosselli o di Céline. Quanto deve essere di sollievo poi, per chi vive l’esperienza della prigionia, trovare nella lettera una forma di contatto con l’esterno. Basta leggere ciò che Nazim Hikmet scrisse alla moglie per capirlo o le Lettere dal carcere di Gramsci, quasi tutte familiari, che gli permisero di sentirsi vivo, ancora parte di un mondo da cui ormai era escluso. Le sue lettere riflettono le diverse fasi che attraversa. Le prime, che scrive tra il 1926 e il 1927, sono quelle di un uomo ancora curioso di ogni particolare di vita. Con il passare del tempo, intorno al 1931, Gramsci rivela la sua stanchezza e i primi segni di depressione, che aveva combattuto nei primi anni attraverso una volontà ferma. Quell’illusione iniziale di continuare a partecipare alla vita di famiglia con il tempo si affievolì. Leggere le Lettere dal carcere durante l’isolamento che stiamo vivendo a causa dell’epidemia assume un valore del tutto particolare. Sebbene la nostra condizione non possa definirsi uno stato di prigionia, è vero però che, come Gramsci, siamo stati strappati ai nostri affetti e, come lui, ci aggrappiamo con forza ad essi attraverso la comunicazione. Certo, noi siamo avvantaggiati dalla rapidità dei nostri scambi, la lettera invece ci costringe ad aspettare. Ma se fosse proprio il tempo dell’attesa la dimensione da riscoprire scrivendo delle lettere? Quando ne inviamo una dobbiamo aspettare ben tre fasi: che la lettera arrivi a destinazione, che chi la riceve risponda e che la sua risposta viaggi fino a noi. Un vero e proprio esercizio di pazienza per un tempo frenetico come il nostro. Aver rinunciato al momento dell’attesa significa aver limitato la nostra comunicazione con l’altro all’istante effettivo in cui questa avviene e aver così radicalmente ridotto l’assenza su cui si fonda il desiderio stesso. Inoltre, il viaggio che la lettera deve compiere, risveglia il noi, oltre al desiderio, anche la percezione della distanza fisica che ci separa, che i messaggi, nella loro istantaneità, hanno annullato.
Come osserva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso, essendo desiderio, la lettera d’amore attende la sua risposta. Se questo non avviene, la sua immagine si altera, diventa altra. La mancata risposta, soprattutto se prolungata nel tempo, può spegnere il desiderio in chi scrive. Il giovane Freud lo spiega alla fidanzata: «Ma non voglio scrivere sempre senza risposta, e smetterò se non rispondi a tono». Quale opera letteraria più de I dolori del giovane Werther racconta meglio il desiderio dell’amato? Nelle lettere che il giovane indirizza all’amico Wilhelm è contenuta tutta la tragicità di un amore sofferto, che trova in questa corrispondenza con l’amico una forma di sollievo. Non sono cariche di desiderio, quindi, solo le lettere indirizzate all’amato, come quelle che lo stesso Werther scrive a Carlotta, ma anche quelle inviate a un terzo, in questo caso Wilhelm, che hanno sempre al centro il desiderio dell’altro.
Le lettere inoltre, rivelando l’aspetto più intimo e nascosto di ognuno, fanno emerge l’umanità di quelle personalità artistiche, che ci appaiono tanto distanti. Pensiamo al famoso carteggio tra Heidegger e la Arendt, durato ben cinquant’anni (1925-1975), grazie al quale possiamo non soltanto venire a conoscenza dei pensieri più reconditi dei due filosofi ma anche apprendere le loro letture, gli avvenimenti politici e storici, i rispettivi trasferimenti e anche i loro silenzi. Sì, perché un epistolario è fatto anche di lettere assenti, di mancate risposte. Quel non detto non è affatto un vuoto, ma al contrario è presenza strutturale. Come in molti carteggi, anche in questo scambio non manca l’aspetto confessionale che è proprio della lettera e anche la consapevolezza del suo limite, così ben espressa da Heidegger nel 1950, sempre scrivendo alla Arendt: «Oh tu! Mia più intima amica – se fossi qui – eppure ci sei – ma vorrei farti apparire come per incanto per mezzo della tua parola».
La lettera, come rimedio al dolore dell’assenza, è certamente il tema dominante di un altro famoso epistolario, quello tra il filosofo Abelardo e la sua allieva Eloisa, separati dopo lo scandalo che la notizia della loro unione scatenò. Nella lettere sesta, che Eloisa gli scrive, emerge un elemento importante: la possibilità di controllare la scrittura a differenza dei sentimenti: «Volesse Dio che il mio animo addolorato fosse pronto ad obbedire come è la mano destra che scrive».
Un posto del tutto particolare poi nella vita di ognuno è occupato dalle lettere mai inviate, pensate per l’altro senza una vera intenzione di spedirle. Apparentemente potrebbero somigliare alle pagine di un diario, ma in realtà sono di natura molto diversa. Cambia infatti l’intensità con cui sono scritte. Nella forma diaristica l’altro è trattato come un terzo, nella lettera non inviata è a tutti gli effetti il destinatario. Perché questo strano gruppo di lettere non raggiungerà mai chi le ha ispirate? Per assenza di coraggio? Per paura di quella mancata risposta di cui parla Freud? Forse. Ma è anche bello sapere che, mentre i postini di tutto il mondo si affannano a consegnare le lettere coraggiose, esista un sottobosco di parole che, silenziose, continuano a fantasticare sul loro destinatario senza mai incontrarlo.