Livermore aggiunge mistero a mistero con “Il giro di vite” di Katia Ippaso

Foto di Federico Pitto

Davide Livermore inaugura la stagione del Teatro Nazionale di Genova, di cui è direttore artistico, con una doppia regia de Il giro di vite: uno spettacolo di prosa e l’opera di Benjamin Britten (The Turn of the Screw) con Riccardo Minasi a dirigere l’orchestra del Teatro Carlo Felice. Due grandi istituzioni hanno così potuto dialogare intorno a una materia labirintica, pregna di riferimenti storici e culturali. Qui parleremo soltanto dello spettacolo di prosa. Il punto di partenza è un racconto semplicemente perfetto. L’ha scritto Henry James alla fine dell’Ottocento e non ha mai smesso di esercitare il suo magnetico potere d’attrazione. Ancora oggi, avventurarsi tra le pagine de Il giro di vite richiede anche al più smaliziato tra i lettori la disponibilità alla resa, non dopo aver ingaggiato un corpo a corpo spietato con gli spettri evocati dall’autore. Qui siamo in un campo definito da quello che molti anni dopo Roland Barthes avrebbe chiamato “Il piacere del testo”, termine che apre a sua volta al freudiano “principio di piacere” per sciogliersi più puntualmente nel “piacere del riconoscimento”. Che cosa riconosciamo, dunque, come lettori, leggendo Il giro di vite? Che cosa proviamo quando entriamo nella casa di Bly e incontriamo i due bambini Flora e Miles? La storia che viene narrata è una classica storia gotica di fantasmi oppure ci dice qualcosa sul funzionamento della psiche? Pubblicato inizialmente a puntate sulla Rivista “Collier’s Weekly”, The Turn of the Screw uscì poco dopo a New York con Macmillan e a Londra con Heinemann, nel libro intitolato The Two Magics. Da allora, non ha mai smesso di attrarre autori e registi, cominciando dal rigoroso film che ne fece Jack Clayton nel 1961, The Innocents (Suspense), sceneggiatura di Truman Capote e William Archibald, Deborah Kerr protagonista, per giungere alla serie tv The Haunting of Bly Manor di Mike Flanagan (2018) che rappresenta forse a tutt’oggi il tentativo più riuscito di riscrittura seriale basata sulla perturbante materia offerta da Henry James più di un secolo prima.

Foto di Federico Pitto

Il racconto di James si muove fra tre livelli diegetici: all’inizio c’è un narratore anonimo che coincide con uno degli amici riuniti attorno al camino ad ascoltare il racconto di Douglas, interpretabile come voce dello stesso scrittore; poi c’è lo sfuggente personaggio di Douglas che promette al circolo di amici classicamente riuniti attorno al focolare di portare, la sera successiva, il manoscritto di una sua vecchia amica, una donna di cui forse è stato innamorato che gli ha consegnato «in bella grafia» il diario di un’esperienza spaventosa, inaudita; infine c’è la voce narrante della stessa donna, l’istitutrice che racconta le vicende tenebrose accadute durante il periodo in cui andò a prendersi cura di due bambini, Flora e Miles, in una vecchia villa lontana dal mondo. Nell’adattamento teatrale di Carlo Sciaccaluga, saltano i primi due raccordi narrativi, sciolti nella limpidezza di una rappresentazione che conserva intatto lo spirito di James senza forzosi adattamenti quotidiani. Ci troviamo a Bly, nella casa infestata dai fantasmi. È tra le pareti altissime, sghembe e sepolcrali della casa stilizzate dallo scenografo Manuel Zuriaga che prendono forma le apparizioni evocate dall’istitutrice. Interpretata da una solida, convincente Linda Gennari, la protagonista dello spettacolo di Livermore alterna momenti di dialogo ad altri di narrazione, senza che lo spettatore abbia tempo e modo di avvertire il passaggio dall’una all’altra forma. Dopo pochi minuti, si è già diventati anche noi abitanti di quella casa che si prepara ad accogliere l’ignoto. Ciò che sta per accadere è qualcosa di sconvolgente, ed ha a che fare con il tabù dell’infanzia violata. I due bambini, Flora (Virginia Campolucci) e Miles (Luigi Bignone), due orfani affidati al disamore di uno zio che delega a governanti istitutrici e servi il loro accudimento, vengono presentati da Henry James come fossero «senza passato, impersonali». Ed è così che li vediamo anche in scena: imperturbabili, ambigui, e un po’ meccanici. Cominciano ad accadere strane cose nella casa.  All’inizio non sono che «rumori che arrivano dall’interno e non dall’esterno», poi diventano inquietanti e fameliche presenze.

Foto di Federico Pitto

Solo l’istitutrice li vede e dopo averne parlato con la signora Grose (una eccezionale Gaia Aprea) che fornirà, dal canto suo, alcuni indizi, si trova a dare un nome e una storia alle due figure: quelle sono le anime del cameriere, il malefico Peter Quint (Aleph Viola), e di Miss Jessel (Virginia Camponucci), l’istitutrice che l’ha preceduta, morti senza pace, dopo aver seminato lo sconcerto nell’animo dei due bambini di cui avrebbero dovuto prendersi cura. La tensione aumenta e con essa la paura che i morti siano tornati per prendere definitivo possesso delle loro vittime innocenti. L’influsso malefico viene attribuito soprattutto a Peter Quint – il suo potere erotico fa riaffiorare alla memoria quello del servo Jean ne La signorina Julie di Strindberg (scritta e rappresentata dieci anni prima de Il giro di vite) – ma nessuno sembra immune al contagio. Quale è la cosa che non si può dire? I due demoni hanno violato i bambini che hanno perso l’innocenza? Lo spettacolo, così come il romanzo breve di James, non offre nessuna soluzione, lasciando allo spettatore il compito di svolgere la sua indagine solitaria, una volta tornato a casa. Ed ecco che, ripensando alla rapinosa, elegante e insieme tenebrosa messa in scena di Livermore sostenuta dall’ipnotica colonna sonora di Giua (che in alcuni momenti incorpora anche frammenti dell’opera lirica di Britten) e dalla compostezza drammaturgica dell’adattamento di Sciaccaluga, oltre che dai suoi infallibili interpreti, lasciamo affiorare a distanza di poche ore alcuni frammenti dello spettacolo e ci mettiamo così a seguire ora una traccia, ora l’altra.

Foto di Federico Pitto

La traccia che lega Henry James al fratello maggiore William, per esempio. Psicologo e filosofo, molto ammirato da James, William tenne il primo corso di psicologia sperimentale ad Harvard. Nei suoi Principi di psicologia (pubblicati nel 1890, quindi quasi contemporanei a The Turn of the Screw), enunciò la teoria del “flusso di pensiero” (stream of consciousness) basato sulle libere associazioni che tanto avrebbe influenzato non solo gli studi scientifici ma anche le teorie letterarie. E se tutto quello che abbiamo visto non fosse che un ininterrotto flusso di coscienza dell’istitutrice, se l’attribuzione di un mortale potere erotico alle due figure fantasmatiche non fosse che la proiezione, la traduzione, la trascrizione solitaria, smisurata, di una energia libidica confusamente repressa? Se tutto quello che  ci è stato raccontato non fosse che la magnifica ossessione di una donna-istitutrice – quindi una figura chiamata ad esercitare un controllo morale sui propri istinti –  che, prima nell’incontro fugace con lo zio dei bambini, e poi con il contatto con i bambini stessi, non avesse sviluppato un’eccedenza di pensieri lasciati liberi, un desiderio inaudito e talmente sconcertante da prendere, nell’impossibilità di passare dalla potenza all’atto (le costruzioni sociali, la morale vigente, il rapporto servo-padrone) una piega fantastica, visionaria? È solo un’ipotesi, suggerita dal finale dello spettacolo. Il bambino muore tra le braccia dell’istitutrice dopo aver nominato “il demonio”. Tutti abbiamo pensato che il demonio fosse l’anima nera di Quint, riapparsa in scena. E se il demonio, invece, fosse la stessa istitutrice? Perché i bambini sono così meccanici, impersonali, senza passato? Esistono veramente? Chi vede che cosa?  Le domande si moltiplicano, come i piani di visione e di ascolto, prima di riconsegnare il mistero alla notte. Cosa vogliamo di più da un’opera teatrale?

Foto di Federico Pitto

 Il giro di vite

di Henry James
traduzione e adattamento Carlo Sciaccaluga
regia Davide Livermore
con Gaia Aprea, Aleph Viola, Virginia Campolucci, Luigi Bignone, Ludovica Iannetti, Davide Livermore
scene Manuel Zuriaga
costumi Mariana Fracasso
musiche Giua
disegno sonoro Edoardo Ambrosio
luci Antonio Castro
regista assistente Mercedes Martini
direttore di scena Fabrizio Montalto
fonico Edoardo Ambrosio
produzione Teatro Nazionale di Genova.

Teatro Ivo Chiesa, Genova, dal 12 al 26 ottobre 2024.