Lombardo – Chiasma – Interazioni: snodi e percorsi di danza di Carlo Lei

Foto di Carolina Farina

Torna una delle rassegne di danza più illuminanti della capitale, una danza, va detto, gorgogliante nell’alveo della più torrentizia ricerca, sia in termini di ricerca linguistica e di formato, che politica: è Interazioni, curata da Salvo Lombardo e organizzata dal gruppo che a lui fa capo, Chiasma.
E proprio come Chiasma, alcuni dei cui componenti presentano in quest’occasione un proprio lavoro, Interazioni è uno spazio in cui la riflessione e l’arte di Lombardo trovano un prolungamento e una messa in prova nel confronto con altri percorsi.
Ciò si legge intanto, come si anticipava, nei formati. Possiamo incontrare lo studio di un progetto in fieri, come l’ancor esile Spintə di Claudio Larena, o quello più articolato, già carico di una sua personalità scenica, qual è Kern di Daria Greco. Non sono mancati naturalmente numerosi lavori compiuti, non solo nuovi, ma ritrovati, rieditati, né pratiche aperte al pubblico, come Le classique c’est chic di Anna Basti o il nuovo Ricevimento di Fabritia D’Intino, Daria Greco, Marta Olivieri. A questo si aggiungano installazioni e mini-proiezioni, come quella, quasi edonistica, del cortometraggio Via di Raphaëlle Delaunay e Jacques Gamblin, una rilettura del lessico gestuale di Michael Jackson sulle note del Lully, che trova assonanze (al pari di certi lavori di Akram Khan per balletti operistici) tra ballo pop e musica barocca; o riflessioni teoriche, quella con Saif ur Rehman Raja e Paola Granato attorno a questioni post-coloniali e d’identità, e l’informale ma densa chiacchierata tra lo studioso della danza Stefano Tomassini e Cristina Kristal Rizzo sulla questione della repertorizzazione dell’opera danzata.
Proprio attorno a questa parola, “repertorio”, si potrebbe disegnare una delle possibili tracce-guida di attraversamento di Interazioni. Prolungamento della ricerca di Lombardo, oltre al multiformato e alla multidisciplinarietà, è infatti l’attenzione al passato (nel senso di “repertoire”) – come non pensare alla sua, per molti versi capitale, riedizione dei gran balli manzottiani nel trittico L’esemplare capovolto? Ecco dunque che al pubblico della rassegna è stato offerto il rarissimo caso di un lavoro del 2012 di Cristina Rizzo, Invisible Piece, rinnovato e ridanzato dalla sua autrice per l’occasione. Anche Genoma scenico di Nicola Galli, performance partecipativa del 2018 e in scena a chiusura della rassegna, può forse ormai cominciare a definirsi “di repertorio”.
E, ancora, va citata l’occorrenza, in scala e contesto differenti, di quel “repertorio” nel senso di raccolta ordinata di segni, restituiti più che come ready-made, come materiale da costruzione in un’azione ulteriore. È stato il caso, si diceva, del lavoro di Larena, una proliferazione del gesto della spinta tra due, tre, quattro soggetti, o di Giuseppe Vincent Giampino, che mette al centro del suo terzo capitolo di Umlaut, di cui i primi sono proiettati a inizio performance in forma di trailer, il gesto dell’inchino teatrale, quello fatto nell’atto di ricevere un applauso.

Foto di Carolina Farina

Con Giampino assistiamo a una scrittura insieme hardcore, senza sconti o passerelle d’accesso, eppure intrisa di tenerezza disperata, tradotta nel vivo di una performance solidissima, avviticchiata attorno a quell’unico lemma dell’inchinarsi. Qui, il palco praticamente spoglio, si dà la presenza di due corpi tuttavia avulsi – l’altro è quello di Greta Francolini in gonna a pieghe e maglietta arancione con scritta “Tanz”, ora serva di scena, ora silenziosa, distratta spettatrice. I due si lasciano guardare come un precipitato insensibile e presentano invece, nell’iterazione del gesto dell’inchino, performata dal solo Giampino in modo addirittura parossistico sopra un brevissimo tratto sonoro ripetuto allo sfinimento (forse quattro note, una gabbia ipnotica), il fantasma di un ritorno all’umano, foss’anche per contrasto o per assurdo. Giampino si inchina alla platea, per lo più a centro palco, sempre rivolto verso di noi, con un completo scuro, scarpe lucide; il corpo del performer nella posizione via via più estrema (ma non siamo di fronte a una scrittura a climax) comincia a mostrare la sofferenza, il capo tocca quasi il suolo, le braccia aperte tremano. Durante una delle ricollocazioni del corpo performante del suo partner nello spazio del palco, Francolini gli ha porto da indossare una giacca a frange nera, insieme civettuola e angelicata. Ora è in proscenio, il sudore che vi stilla comincia a raccogliersi in pozze sul palco bianco finché, posizionato all’uopo un microfono rattrappito a gomito, fluisce persino un canto. Ed è sia nel dolore e nella fatica (il corpo come palco e strumento, l’attorialità vibrante, Vincent Giampino non deve ignorare i percorsi della body art), sia nel canto spremuto da un corpo spezzato, che si può incassare il risarcimento dalla ruvidezza dell’impianto visivo spalancato e brutalmente “di servizio”, dalla scrittura monologante, da quella forsennata negazione di ogni soluzione accogliente, paradossale in un’apoteosi della genuflessione, quasi fossimo davanti all’opera di un asceta, a una preghiera solitaria gridata in uno speco.

Foto di Carolina Farina

 Sempre su questo nucleo tematico del repertorio come collazione potrebbe transitare, magari forse solo per un tratto della sua storia, il lavoro di e con Aurelio Di Virgilio. L’artista pescarese presenta un solo sopra un curioso doppio tappeto tra il prugna e il malva a cui porta coordinati i corti bermuda e la maglietta. Jeplane, così il titolo, si apre con Di Virgilio già in scena, mani sugli occhi, semioscuro lo spazio. A breve lo troveremo trasferito su uno dei due tappeti che nel corso del lavoro verranno fatti scorrere longitudinalmente l’uno rispetto all’altro, il primo verso il fondo, il secondo verso la platea, grazie alla presenza, sotto di loro, di una polvere bianca, e per mezzo di due cordini pinzati ai bordi. Ecco, dunque, il performer intento nella reiterazione di un gesto ritmico, una sorta di doppia spirale disegnata con le braccia davanti al petto, una variazione non accademica di port-de-bras, un moto insieme di aereo accoglimento, di richiamo a qualcosa di impalpabile – mentre piccole variazioni suggeriscono oscillazioni non puntuali di senso. L’evocatività sonora dei lunghi accordi cangianti e armonicamente trascoloranti e l’ingresso di luci di taglio conferisce a quella stereotipia di movimenti un che di ammaliante, davvero come l’evocazione di qualcosa d’altro. Tale è anche l’interruzione di quel gesto, scandita da una millimetrica e puntuale (rispetto a cosa, non è dato ricostruirlo) ricollocazione dei tappeti. Insomma, Di Virgilio riesce a convocare una misteriosa alchimia di significanti, a cui è sì puerile tentare di dare senso univoco, ma dai quali è impossibile evitare di lasciarsi tentare, tantopiù quando sullo sfondo per tutta la larghezza della scena si disegna, improvviso con tutta la sua carica simbolica, uno struggente rayon vert. Dev’essere questo o qualcosa d’altro che alla solitaria figura di Di Virgilio consegna ora una congerie di gesti tutti diversi da quello proposto finora, gesti che si rincorrono, gesti dalle innegabili qualità “oggettive”, ma di un realismo da fiaba, senza corrispettivi: sono stupori, attese, incontri, smarrimenti ingenui o epocali. È come se il personaggio – un personaggio? o un interprete di repertori gestuali altrui, tratti da un mondo franto, come il doppio tappeto ormai divaricato da una crepa netta e insanabile, due zolle in scivolamento – è come se affrontasse il buio e le presenze di una qualche foresta o di un abisso, riportasse su di sé narrazioni sottoposte a rimescolamenti arbitrari.
Come si vede, Jeplane è un lavoro costruito con scrittura e coordinate nette, senza concessioni all’indecisione. Eppure risulta, attraverso questa precisione, capace di evocare l’indistinto, il fiabesco, il magico; ne è prova il fatto che un lavoro asciutto, senza melodramma, non esita a usare tutti quegli strumenti (la luce, la trovata scenografica, l’uso di materiali come la polvere bianca, gettata a terra sul finale sotto il fascio luminoso, la chiusa icastica) che parlano all’intuizione e alla pelle di chi guarda.

Foto di Carolina Farina

Questa del repertorio è solo una delle possibili bussole tematiche utilizzabili per esplorare una rassegna così ricca e attentamente ricamata dall’attività del Lombardo curatore: altri potrebbero rilevare l’assonanza tra il dance-floor evocato da Greco in apertura al suo Kern con alcuni dispositivi del coreografo siciliano; altri rintracciare la critica anti-abilista di un piccolo furioso lavoro quale Come sopravvivere in caso di danni permanenti dell’indomabile Francesca Santamaria con le tematiche del potere del corpo dominante e prestante sottese, ad esempio, ad Amor, secondo dei tre capitoli del già citato Esemplare capovolto. E, facendo un passo indietro, quella del “prolungamento” dell’universo di ricerca dell’artista-curatore non è che una delle dimensioni di lettura della costruzione di un programma.
Già, perché sbaglierebbe chi si accontentasse di leggere gli eventi convocati in Interazioni unicamente come sponda di un percorso di ricerca personale. Nel dialogo che i lavori hanno istituito fra di loro – lavori nati e cresciuti autonomamente, distanti fisicamente e poeticamente, oltre che, come si è detto, nel formato e nel linguaggio – si è assistito all’agglutinarsi improvviso, illuminante, di atti indipendenti in un discorso complessivo logicamente strutturato e nuovo, fertile produttore di senso e, ciò nonostante, aperto all’ulteriore. Un discorso non assertivo, non consolatorio, scaturigine a sua volta di altri discorsi.