“Madri”. Il grande dolore non si può dire di Alessandra Bernocco

Foto di Camilla Morino

“Mi sento come la cosa spostata e contemporaneamente la persona che la sta cercando”. Una battuta galleggia nel flusso vorticoso di parole alla ricerca di quella mancante. La parola sommersa, quella che ti servirebbe per chiudere il cerchio e mettere fine a chissà quale pensiero che non riesce a prendere forma. Senza quella parola il pensiero si arresta e a circolare sono dei pseudopensieri fittizi, impaludati in una quotidianità ripetitiva e stanca. Eppure, quella stessa parola è infiltrata in essi, giace sul fondo e li contamina.

Si affaccia, turba e disturba, tormenta, minaccia, ma non si dichiara, non si lascia dire, trovare, riconoscere. Ma le cose vengono all’essere quando sono nominate. E allora quella parola bisogna trovarla. Per dare un nome alla cosa che c’è, che è lì, dentro e fuori di noi a interpellarci senza ricevere né suggerire risposta.

“Di intimo c’è rimasto solo …”. Che cosa? Cosa ci è rimasto di intimo, viscerale, inalienabile, di non sovraesposto, svenduto o svendibile?

Madri, testo a due voci scritto da Diego Pleuteri e diretto da Alice Sinigaglia, con Valentina Picello e Vito Vicino, ce lo rivela soltanto alla fine ma lo spettacolo tutto è un percorso indiziario per prenderne atto, verso una labile forma di autocoscienza: individuale e collettiva.

La sensazione di spaesamento è quella più forte. Dove siamo? In una casa che sta per essere smantellata? In una casa dove ci siamo appena trasferiti? O forse no, siamo semplicemente nella sala prove di uno studio di registrazione, come suggerirebbero i microfoni e i leggii dietro ai quali decolla il rapporto tra una giovane madre e un figlio adulto che torna a farle visita senza preavviso, o senza che lei ricordi di essere stata avvisata. Chi ha ragione non lo sappiamo, non ancora.

Foto di Camilla Morino

Intanto annaspiamo nelle loro parole svuotate di senso, aggrappate alle cose più prossime – il cibo, i vestiti bagnati – o in frammenti di senso che non trovano seguito sui quali verrebbe voglia di aprire un dibattito – le famiglie felici e il discutibile incipit di Anna Karenina, la critica degli insicuri sempre accompagnati da un “magari mi sbaglio” – e invece il dialogo vira, si riavvita su sé stesso e a interromperlo è soltanto l’assenza. Il partire del figlio e l’inutile tentativo di trattenerlo, il suo ritornare e non trovare nessuno, se non il buio e un senso di perdizione che spaventa anche noi.

La donna è sparita, nessuno risponde, l’angoscia sale e il respiro si ferma. Salvo che poi veniamo scossi da una luce abbagliante e da una forte risata, non so dire se più lugubre o più derisoria. Non certo tranquillizzante. Era uno scherzo ma non era soltanto uno scherzo.

È un segno, un segno perturbante dentro un andamento che procede per climax sovrapponendo proiezioni e ricordi, incubi non si sa se reali o allusi come la sparizione improvvisa di un familiare, il timore di perdere il controllo e la percezione di sé, il velato desiderio incestuoso e il terrore di replicare un destino già scritto che si affaccia nel sogno e ti fa cercare sollievo nella buona morte dispensata con amore.

Il registro non è realistico ma le emozioni sono messe a nudo e bruciano, vibrano, si dilatano grazie a una regia che utilizza un sofisticato apparato di microfoni, amplificatori, frasi ribadite, registrazioni fuori campo, suoni subliminali e rumori quotidiani come lo squillo molesto del citofono che ci fa sobbalzare e fa dire alla nostra che “dalla vita vorrei solo un po’ di preavviso”.

Invece tutto succede senza avvertire, tra soliloqui surreali, dialoghi sfasati, interrotti, recuperati in un provvisorio faccia a faccia e pensieri che rimbombano nelle voci registrate, ma tutto ristagna in superficie, tranne quello che cerchi, quella dannata parola che sfugge, probabilmente nascosta tra le righe di un ritaglio di giornale conservato in chissà quale scatolone, quella parola che sfugge ogni volta che sta per essere detta.

Il dolore. Il sentimento più intimo. Il solo che si sottrae al racconto, che non si espone al fraintendimento, che non cerca consolazione. «Lieve è il dolore che parla. Il grande dolore è muto» scriveva già un certo Seneca.

Foto di Camilla Morino

Il resto sta sopra. Che si rida o si pianga, che si speri o disperi, che ci si scontri o incontri. Che si litighi fino a farsi del male o che si sfogli insieme il vecchio album di fotografie di famiglia. La condivisione consola ma il dolore è sommerso e l’intimità è solitaria.

Questo mi è arrivato, questa mi è sembrata l’ispirazione e la tesi di questo lavoro (ma magari mi sbaglio). Questa, nonostante gli sforzi per non affondare, nonostante l’amore, nonostante i legami che la natura riserva.

Un testo interessante, che è valso all’autore il premio EURODRAM nel 2022, con la regia matura di una giovane leva e due attori molto ben sintonizzati.

Mi sento di ascrivere Valentina Picello tra le migliori interpreti del nostro teatro, versatile, energica, mai compiaciuta, libera da vezzi e tentazioni narcisistiche.

Madri

di Diego Pleuteri
con Valentina Picello, Vito Vicino
regia Alice Sinigaglia
sound designer Federica Furlani
scenografia Alessandro Ratti
luci Luca Scotton
produzione La Corte Ospitale – coproduzione SCARTI Centro di Produzione Teatrale d’Innovazione.

Teatro Biblioteca Quarticciolo, Roma, 28 febbraio e 1° marzo 2025.