Un grande palco vuoto, come quello lasciato da Ulay dopo la sua recente scomparsa. Due corpi nudi. Sono quelli di Marina Abramović e il compagno e artista Ulay. Camminano. Mano a mano la velocità dei loro passi accelera fino al punto in cui si urtano sempre più violentemente. Marina, dopo l’impatto con il corpo di Ulay, cade a terra fino a che le forze vengono a mancare ad entrambi. Questa performance, intitolata Relation in Space, sembra contenere la sintesi della loro relazione artistica e amorosa: un avvicinamento simbiotico destinato alla distruzione. I due artisti la presentano alla Biennale di Venezia nel 1976. Sarà la prima di una lunga serie di azioni artistiche intitolate Relation Works.
Quest’idea di un “lavoro della relazione” sottolinea la volontà da parte di entrambi di raggiungere un’indivisibilità delle loro forze e una fusione assoluta. Prima del loro incontro, avvenuto ad Amsterdam nel 1976, Marina Abramović si è fatta conoscere in Serbia, suo paese d’origine, per una serie di azioni in cui metteva in scena il suo corpo. Ulay invece si occupava di fotografia sperimentale.
A partire dal loro incontro i due artisti si legano per ben dodici anni, fino al 1988. Nella ricerca che conducono l’arte e la vita non sono più due campi separati ma due esperienze simultanee della verità.
La loro unione ricorda il mito delle due metà, raccontato dal personaggio di Aristofane nel Simposio di Platone. Ci fu un tempo in cui l’uomo e la donna erano uniti in un solo essere inseparabile. Ma Zeus, geloso della loro potenza, li separò in due metà. Da allora vivono separati ma quando incontrano la loro metà si ricordano del loro “Io” perduto e non vogliono più separarsi. Così sembra funzionare il rapporto tra i due artisti nella loro unione ermafrodita e nella la volontà di creare un “Io” comune. E questo è evidente, come abbiamo visto già in Relation in Space.
Qui viene indagato il tema dell’identità. La cultura e l’eredità differenti di ognuno riescono a sfuggire alla prigionia dell’“Io” e permettono così di creare una nuova identità, quella di un corpo bicefalo.
I due artisti conducono una ricerca permanente di un nuovo spazio vitale. Lo stesso tema ritorna in una performance del 1977: Relation in Movement. Qui la coppia è all’interno di un furgone Citroën, da poco acquistato dalla Polizia francese e nel quale i due hanno deciso di vivere, abbandonando così l’idea di un luogo fisso. Ulay lo guida nel cortile del Musée d’art moderne di Parigi durante la Biennale, effettuando ben 2226 giri in sedici ore. Marina è al finestrino annunciando con un megafono il numero dei giri. Nel frattempo un liquido nero scorre dal veicolo, fino a designare un cerchio. Più tardi, l’Abramović, commentando questo periodo, affermò che il solo problema nella loro relazione era di sapere come relazionarsi con l’ego dei due artisti. Bisognava trovare un modo per ridurre quello di entrambi per poter creare un essere ermafrodita, che loro avevano definito “la morte del sé”.
A queste prime due performance dedicate allo spazio e al movimento, segue una delle loro più celebri azioni artistiche: Breathing In/Breathing out. Per quest’ operazione i due artisti bloccano le loro narici con dei filtri di sigaretta e premono le labbra una contro l’altra così da respirare per diciassette lunghi minuti solo l’aria emessa dall’altro, fino a collassare a causa dell’anidride carbonica. La filosofia del soffio creatore era uno dei loro temi favoriti. La dinamica dell’inspirazione e dell’espirazione determinò tutto il loro lavoro comune. Trattenendo il respiro fino alla perdita dei sensi si ottiene infatti la più alta concentrazione.
Breathing In/Breathing out rientra nella volontà dei due artisti di rischiare, spingendo ogni azione fino al suo limite estremo. È questo anche il caso di Rest Energy e Relation in Time.
In Rest Energy l’Abramović tende per qualche minuto un arco, mentre Ulay tiene nella mano una freccia, diretta verso il cuore di lei. Un semplice cedimento e una minima distrazione possono rivelarsi fatali. Ma il gioco con i propri limiti non avviene senza rischi né senza tormento. In questa performance l’armonia ricercata tra l’uomo e la donna è attiva e non passiva. Sono necessari una concentrazione e un’attenzione costanti. Lo sguardo, le mani, tutti i sensi sono riuniti al servizio dell’amore, che esige una cura costante dell’altro.
In totale i due artisti e amanti realizzano ben 37 opere comuni sul filo del rasoio, unendo l’eccesso alla comunione più sacra e intima. Insieme aspirano a dare corpo all’energia, a trasformare il materiale in spirituale. Nel 1988 arriva l’opera ultima, la più immensa. La più lunga. Si tratta di The Great Wall Walk. I due artisti occupano ciascuno l’estremità opposta della Grande Muraglia cinese. Cammineranno per novanta giorni in piena solitudine per ritrovarsi poi a metà della muraglia dove si separeranno per sempre. Dopo lunghi anni di lavoro comune, la loro relazione ha cominciato a vacillare. Hanno sentito di essere arrivati al termine del loro cammino comune. Era necessario dare una nuova dimensione alla relazione oppure interromperla. Scelgono la strada più difficile: la rottura. L’idea di quest’ultima performance venne all’Abramović, che la considerò un’esperienza mistica. Più tardi, commentando questa decisione dirà: «Non volevo che finisse in maniera semplice, dopo tutto ciò che abbiamo vissuto di bello. Volevo qualche cosa di più romantico. Se dovevamo separarci, bisognava che fosse una sorta di fine come quella di una marcia dell’uno verso l’altro. Mi sembrava che questo fosse molto umano. Si trattava di qualcosa di più drammatico, un po’ come la fine di un film».
Ma quel saluto, in realtà, non era l’ultimo. Ancora una volta è all’interno di una performance che i due si incontrano. È la primavera del 2010, Marina Abramović realizza al MoMa uno dei suoi più intensi lavori: The Artist is Present. Questa performance prevedeva che l’artista sedesse in silenzio di fronte a una sedia vuota, che veniva occupata dai visitatori. Quando la sedia si libera, inaspettatamente è Ulay a comparirle di fronte. Non poteva che terminare così, sotto lo sguardo di tutti, il loro percorso artistico e umano. Ancora una volta, in quel momento, hanno dimostrato che l’arte e la vita non sono due entità separate. Al contrario l’una è niente senza l’altra.