Arriva al Teatro Vascello di Roma dopo diverse tappe l’ultima produzione della compagnia romana Spellboud contemporary ballet guidata da Mauro Astolfi, sicuramente un lavoro monstre rispetto al percorso del coreografo e che già dal titolo, L’arte della fuga, lascia trasparire una certa affezione ch’è in parte compositiva e in parte letteraria, sebbene al contempo riveli una referenza tutta ideologica nel suo valore linguistico ed edificatorio (nella relazione tra i corpi). Costruito come un intarsio di piani su un fondo bidimensionale che si trasforma e ricompone come un quadro da espressionismo astratto (scuro, materico, rigorosamente asettico), lo spettacolo si lascia narrare aderendo quasi fisicamente a questa parete-muro che riporta alla memoria molteplici interferenze visive, sia in termini storici e sia nei suoi aspetti più propriamente retinici: è un muro come tanti della contemporaneità che verbalizza una (agognata) impossibile libertà (senza tornare a quello iconico di Berlino), è una porta di accesso per l’altrove con la quale i danzatori e le danzatrici innescano una continua lotta nel tentativo di un superamento dei pertugi, degli usci, delle insenature che vanno ad aprirsi o a eclissarsi come in uno scenario prospettico mobile (alla maniera dei performer di Robert Lepage) e, infine, forse, una architettura immersiva, immaginata come opera d’arte all’interno della quale far muovere presenze, archetipi figurali derivativi da una archeologia concettuale. Queste pareti che si aprono, creano pertugi, finestre, porte, avviluppano i performer, li libera in verticalità e orizzontalità acrobatiche, deviano dunque il discorso, lo innervano di ulteriori elementi, lo liberano dall’assolvere al compito di misurarsi con la sola danza, dove la sola danza non basta più.
Lo spettacolo riporta comunque a un gradiente “classico” attraverso il perimetro musicale che assembla con maestria la partitura Die Kunst der Fuge di Johann Sebastian Bach (BWV 1080) e le connessioni più “ritornanti” dei brani originali composti da Davidson Jaconello; una grana del suono di grande effetto che molto incide sulla scelta di muovere danzatori e danzatrici per una diagonale mai arresa al tempo timbrico dei suoni, anzi, ci appare in tutta la sua evidenza quella incessante ricerca del fraseggio di corpi sinuosi e iper cinetici su cui il coreografo ha costruito il proprio segno distintivo, quella coloritura (particolarmente avvezza a una fisicità esponenziale e dichiarata) delle micro coreografie di un corpo che lavora su se stesso, si oppone all’altro, resiste ma infine cede in una resa sensuale, dolorosa, affettiva, finanche scura, che si libera apparentemente per tornare poi a un dialogo dove parete scenografica, corpo esposto e tensione coreografica (in una aderenza persino surreale) sono sintesi di un processo interessante e decisamente maturo (senza archiviare l’esperienza “kafkiana” di Giorgio Barberio Corsetti, che ne regge il pensiero).
La fuga è allora quella certa diagonale attraverso Bach? È la volontà di “redimere” la danza dagli stereotipi del maschile e del femminile? Forse. Nel disegno negli anni costruito con dovizia da Astolfi, così denaturato e levigato, scorgiamo un graffio, una percepita sofferenza che ci riporta ad un presente del sentire e in quella sfera del sentimento “etico” le matrici dell’abbandono, della sopraffazione e del cinismo ambientale (dove potremmo riconoscere persino spunti da Pasolini, flash da cronaca nera del Circeo, le riflessioni di Henry David Thoreau e molto altro, tanto altro); la ricerca di un altro spazio è possibile intuiamo, al di là degli stilemi linguistici, un oltre simbolicamente riportato dal tappeto verde che fa capolino all’inizio e diviene “corridoio” esistenziale sul finale, viatico del movimento, contrappunto di equilibrio alle nervature di una costruzione coreografica che nulla faceva sospettare di pensarsi anche in chiave mimetica. Alla predilezione per gli ampi passaggi si preferisce dialoghi serrati tra corpi, a due o in gruppo, per ritrovare successivamente quella enfasi di un gioco del corpo-a-corpo con se stessi in assoli persino letterali, introiettati, su una “superficie” particolarmente raggrumata da un archivio di segni che si fa condizione, struttura. Spettacolo compatto con interpreti bravi a tenerne la responsabilità scenica.
L’arte della fuga
coreografia e regia Mauro Astolfi
interpreti Lorenzo Beneventano, Anita Bonavida, Marina Cossu,
Mario Laterza, Giuliana Mele, Alessandro Piergentili, Roberto Pontieri,
Miriam Raffone, Martina Staltari
assistente alla coreografia Alessandra Chirulli
musica Johann Sebastian Bach
musica originale Davidson Jaconello
disegno Luci Marco Policastro
set concept Mauro Astolfi, Marco Policastro
costumi Anna Coluccia
realizzazione scenografie Scenario
una produzione Spellbound contemporary ballet
con il contributo del Ministero della Cultura
co-produzione Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza e Fondazione
Teatro Comunale Città di Modena.
Teatro Vascello, Roma, dal 5 al 10 dicembre 2023.