Ri-leggere il pluripremiato testo narrativo di Stefano Massini, Qualcosa sui Lehman (Milano, Mondadori, 2016, pp. 773, euro 24,00), finalista al premio Campiello del 2017, già prima uscito per la Einaudi, Collana teatro, nel 2014, col titolo di Lehman trilogy, titolo anche dell’ultimo spettacolo diretto da Luca Ronconi nella stagione 2014-15, permette, a distanza, uno sguardo che va oltre il testo stesso e l’autore. Non certo per estraniarsi dal coro plaudente, giustamente, la qualità della scrittura massiniana, o per criticare al post-tutto la realizzazione scenica del Piccolo, poco prima della scomparsa del maestro, (che pur ebbe, a mio parere, dei limiti, come sostenuto anche, ad esempio, da Franco Cordelli), ma per tentare di capire alcuni aspetti dell’attuale cultura letteraria e teatrale del nostro Paese.
Non entro nelle polemiche, anche invidiose, e nei motivi per cui Massini sembra essere oggi il tanto secolarmente atteso nuovo Pirandello (cosa dire allora di Mimmo Borrelli, per fare un unico esempio?), desiderando restare nel recinto dello “spazio letterario del teatro”, dimensione in cui e da cui entrano ed escono i testi scritti, e pubblicati, ovviamente non sempre (potrebbero essere copioni, testi compiuti ma inediti e così via), che si fanno componente drammaturgica e scenica. Appunto è il caso, eclatante, dell’opera di Stefano Massini. Autore il cui primo merito, a parer mio, è quello di essersi ben collocato in quella zona della letteratura nazionale che il bravissimo studioso Gianluigi Simonetti, nel suo La letteratura circostante. Narrativa e poesia nell’Italia contemporanea, (Bologna, Il Mulino, 2018, pp. 454, euro 29,00), ha ben individuato: <<Le due letterature a cui una volta eravamo abituati (…) tendono oggi a diventare tre. Ed è questa terza, oggi, a guadagnare soprattutto posizioni e lettori, non solo nel grande pubblico ma anche tra le cosiddette élite, e tra i lettori forti. Una scrittura via-di-mezzo, né puro consumo né sfida culturale, ma piuttosto nobile intrattenimento, (…) Questa narrativa via-di-mezzo può all’occorrenza nutrirsi di impegno civile e alibi culturali, ma al dunque stringe alleanze spontanee con altre forme di intrattenimento mediocre, più imperialistiche e più easy. Oggi risulta in posizione egemone>> (p. 34, corsivi miei). Tenendo pur conto che Massini è innanzitutto professionalmente legato al lavoro teatrale (drammaturgo, consulente artistico del Piccolo Teatro di Milano, regista, ora anche inserito nel mondo televisivo con le sue “storie” che vengono da lui stesso narrate nelle trasmissioni di Formigli), tenendo conto di ciò, io credo che un’opera quale Qualcosa sui Lehman entri, pur al grado più alto, fra quelle appartenenti, secondo la tassonomia di Simonetti, nel novero dei testi di “nobile intrattenimento”. Va da sé che, parimenti, dal punto di vista della letteratura teatrale, vi entri anche il precedente e genitoriale Lehman trilogy. Non sono poi molti i punti di incrocio fra facile consumo e ricerca stilistica e formale sui quali si è sicuramente trovata la scrittura di Massini. Ad esempio, una caratteristica che porterebbe verso la fruizione più consumistica è lo stilema della ibridazione: si ibridano le forme di genere, fino a inserire in alcune pagine la graphic novel; sull’altro versante, quello più ricercato espressivamente, registriamo una scelta fondamentale, cioè lo scrivere in versi liberi, con un polimetro che rasenta la prosa, ma che avrebbe potuto più coraggiosamente rifarsi a modelli classici come Shakespeare, e anche moderni, e italiani, come un Pasolini e un Testori. Perché, mi chiedo, è praticamente assente l’uso della rima? Tanto più che prosodicamente è lo strumento più efficace per una resa “musicale” del verso stesso. Altro indice di timore nello sperimentare soluzioni espressive, a mio parere, è l’assenza di deittici temporali e spaziali, o, per meglio dire, il cambiamento nello scorrere della storia narrata (da un anonimo narratore onnisciente) del tempo storico, ma anche del dove ci troviamo. Probabilmente tale scelta è determinata dall’assunzione di un tempo mitico, che pone i personaggi come in un eterno presente, coi loro riti ebraici e le loro radici tedesche, perché in ultima istanza scompare la grandissima Banca ma rimane pur sempre la storia e la testimonianza di una famiglia, delle sue antiche e via via perdute tradizioni, e della vita delle sue generazioni. Ma, poi, a ben vedere, come in altre narrazioni d’oggi, a prender maggior presenza per il gusto narrativo dell’esotico (compreso quello occidentale degli USA e segnatamente di New York) è l’ambientazione cronotopica, appunto, statunitense, dove per 150 anni circa, conquista dopo conquista, i Lehman hanno costruito il loro Paradiso fino a farlo infernalmente deflagrare, con tutte le conseguenze drammatiche e funeste che conosciamo. Infine, ma forse è una mia esagerata concezione del lavoro di scrittura, mi chiedo come mai l’autore non ha citato nemmeno una fonte, né un credit, né una pur minima bibliografia a supporto della sua ricerca, come ad esempio ha fatto Sandra Petrignani nel suo bellissimo libro biografico dedicato a Natalia Ginzburg, e giunto anch’esso quest’anno in finale di un premio prestigioso come lo Strega (mi riferisco a La corsara. Ritratto di Natalia Ginzburg, Vicenza, Neri Pozza, 2018, pp. 459, euro 18,00).
Forse Massini mi risponderebbe che il suo è un “romanzo-ballata”, come ha più volte specificato: d’accordo, ma, come tira oggi la moda, siamo in un territorio non-fiction, anzi, fortemente attento a personaggi reali che esercitano da sempre un particolare interesse per svariati motivi (si pensi a M. Il figlio del secolo, il libro su Mussolini e la prima parte della sua vita, di Antonio Scurati, da poco uscito per i tipi della Bompiani). Ma potrei anche tirare in ballo la lezione addirittura di un Manzoni. Ma lascio perdere, invitando tutti noi a ripensare al nostro lavoro, in tempi davvero bui, in cui è forte il rischio che la scrittura stessa, e assieme il gusto della lettura, finiscano per scomparire!