Site-specific. Melting pot. Non è soltanto per divertirsi a fuoriuscire dai binari di una retro-cultura (o cultura retrò) nostalgica e ridicola che inutilmente scalpita ai vertici, ma proprio perché non ci sono espressioni più adatte per dire di questo festival che da quindici anni si svolge in Sardegna nel mese di luglio.
Si tratta del NurArcheoFestival, co-diretto da Iaia Forte e Rita Atzeri, anima della compagnia cagliaritana Il Crogiuolo, che ha come obiettivo – vera e propria mission perseguita con passione – la riscoperta del patrimonio storico e culturale dell’isola, spesso lontano dai circuiti turistici di massa, non facile da raggiungere e per certi versi da immaginare.
Che proprio sopra Tortolì, per esempio, tra l’Ogliastra e la Barbagia, ci sia un sito archeologico che vanta due templi nuragici riportati alla luce tra la fine degli anni Ottanta e il Duemila, testimonianza di luoghi di culto e di vita pacifica di popolazioni diverse insediatesi tra il XV e il VI secolo a.C., non è cosa scontata per i frequentatori dei meravigliosi lidi che si affacciano sul mare più limpido e bello d’Italia, e non solo.
Eppure S’Arcu ‘e Is Forros, santuario nuragico di Villagrande Strisaili, è uno dei siti che anche grazie al festival ha attirato ogni sera almeno un centinaio di visitatori, tra locali e turisti disposti a lasciare la costa e raggiungere i quasi mille metri, percorrendo una strada di tornanti ininterrotti, luogo di transumanze antiche e recenti, di contaminazione di popoli di terra e di mare anche provenienti dall’Oriente, come dimostrano i reperti ritrovati e scampati alla razzia dei tombaroli, ora custoditi nel museo archeologico di Nuoro (importante valore aggiunto di questo festival è la visita guidata al sito, accuratissima e ricca di dettagli).
Lì e in altre aree deputate (S’Ortali ‘e Su Monti, ex Blocchiera Falchi, Teatro a mare di Arbatax, Porto Frailis) si sono succeduti tra il 17 e il 31 luglio artisti come Maria Paiato, Anna Bonaiuto, Enrico Bonavera, Giorgina Pi, Motus, Lucilla Giagnoni, Lorenza Zambon, per fare solo alcuni nomi di chi non siamo riusciti a incastrare.
Per il resto, quattro spettacoli in due sole giornate, dal tramonto a sera inoltrata. Nessuna scena, nessun sipario, nessun artificio se non quello di giocare con lo spazio circostante e con esso dialogare, dal ginepro secolare ai muri a secco che fanno da fondale, alle pietre calcaree che puntellano la spianata adibita a palcoscenico.
È questo il caso della performance di danza creata ed eseguita da Andreja Rauch Podrzavnik, artista slovena che ha improvvisato – tuta comoda e sneakers ai piedi – una coreografia su musiche dal vivo del compositore britannico Christopher Benstead: un dialogo intimo con il luogo in equilibrio sui sassi, non dribblati ma inglobati nel gesto, còlti da terra, fatti risuonare tra le mani.
Intanto la catena del Gennargentu davanti a noi spariva alla vista e si faceva buio, prima che Mario Perrotta sotto un ginepro di quattrocento anni, tutt’altro che casuale, intrecciasse la sua drammaturgia calviniana con l’immancabile Cosimo arrampicato sull’albero. Come una specie di vertigine il titolo di questo monologo che è l’originalissimo viaggio attraverso la scrittura di Italo Calvino, per bocca di una creatura castigata in un corpo di disgraziato. L’idea è mutuata da La giornata d’uno scrutatore, racconto in cui Calvino riversa la sua esperienza come scrutatore al seggio del Cottolengo di Torino, sede di ricovero di minorati fisici e psichici: esperienza vissuta col suo sguardo visionario, rapito dai soggetti che lo abitavano molto più che dedito alle schede elettorali. Non so se Perrotta abbia voluto assumere su di sé il punto di vista dello scrittore e quella “pietà di uomo laico” che confluisce nella figura di Amerigo Ormea, intellettuale comunista, ma certamente presta il suo fisico, la sua mimica facciale, la sua voce a una di queste creature infelici, ne accoglie la smania di vita e di carne, inconfessata e umanissima, e disegna con lui la parabola di un desiderio che alla fine capitola di fronte all’impotenza di un corpo incapace di ubbidirgli. Ma lo informa anche di altri personaggi della narrativa calviniana, li fa vivere e interloquire l’un l’altro, sempre all’interno di una partitura precisa – ritmica, fatta di giochi linguistici, assonanze e consonanze e persino di un forse troppo artificioso inserto rap – nella quale la logica di Palomar incontra la surrealtà de Le città invisibili e de I nostri antenati.
Bella commozione, grande consenso di pubblico, come già si era registrato di fronte al divertentissimo estratto di Musica per camaleonti di Truman Capote, a cura di Iaia Forte e Tommaso Ragno che, semplicemente dietro a un leggio, hanno restituito da par loro il dialogo tra Marilyn Monroe e lo scrittore mentre si celebra il funerale di una famosa insegnate di recitazione. Da una parte le battute sagaci, le domande incalzanti, le frottole snocciolate per estorcere confidenze di un gigante del reportage che scrive da Dio, ora provocatore ora paravento, che liquida Arthur Miller come un imbrattacarte qualunque, dall’altra l’“esplosione di sesso al platino”, l’“intelligenza a sprazzi”, il biondo che certamente è naturale ma “non fino a questo punto”, l’incredulità naïf di una tenera femmina piena di insicurezze, che non contempla di poter essere invidiata. Due mondi che si levano dalla pagina scritta e fanno ben sperare in un prosieguo del progetto.
Un omaggio multimediale a Marguerite Yourcenar è arrivato invece con Why, Clitennestra, Why? tratto da Clitennestra o del crimine (racconto lirico contenuto in Fuochi), presentato nell’area S’Ortali ‘e Su Monti di Tortolì, con la scrittura scenica di Maria Assunta Calvisi che ha coniugato la prosa di Yourcenar, affidata a Miana Merisi, alle coreografie in video eseguite da Alessandra Corona e Guido Tuveri su musiche di Thomas Lentakis.
Infine, last but not least, segno bello di un melting pot che dalla tradizione arriva fino a noi, accogliendo e mescolando a meraviglia visioni del mondo e farine di vario tipo, Intrecci di pane, “un lavoro performativo a carattere antropologico” in cui si è voluto far rivivere il rito e la storia della lavorazione del pane attraverso una forma di teatro partecipato che ha visto panificatori di Villagrande, paese a metà strada tra il sito e Tortolì, accanto a teatranti con le mani in pasta e a una danzatrice senegalese che ha fatto il suo pane arabo.