Numerose sono le iniziative parateatrali, già fruttuose durante il lockdown della prima ondata di pandemia, che pur scontando il limite inevitabile di non farci incontrare in una sala o in luogo preposto alla scena dal vivo giocano con la relazione tra persone fuori da quelle sedi convenzionali. Se il pubblico non può andare a teatro, in qualche modo, il teatro va incontro al pubblico. In tutta la penisola si registrano, infatti, esperienze significative di spettacolo dal vivo mascherato da attività assolutamente lecite e consentite in questo preciso momento storico. Si tratta per esempio di Ippolito Chiarello e del suo Barbonaggio Teatrale Delivery, in Puglia, che porta il teatro in bici anche dove non è mai arrivato, prenotando online una performance dal vivo sotto la finestra; o ancora, Coprifuoco // Spedizioni notturne per città deserte, il nuovo spettacolo della compagnia teatrale Kepler-452, in cui un rider, guidato a ogni performance da un artista diverso (Vetrano Randisi, Lodo Guenzi, Francesca Pennini, Marco D’Agostin), vaga per le città di Imola, Bologna e Ferrara per consegnare un “dono” a un personaggio misterioso, con il pubblico che potrà seguire (grazie alla telecamera posizionata sul casco del rider) tutto il percorso fino a destinazione.
Il 3 dicembre il Teatro dei Venti ha istituito a Modena la Zona Turchina, e con le Favole al Citofono porta i racconti di Gianni Rodari a domicilio, un appuntamento che, inizialmente previsto fino al 10 dicembre, prosegue le sue repliche fino al 18, e forse anche oltre. Tre attori attraversano il quartiere per narrare ciascuno una storia: Il paese senza punta con Francesca Figini, La strada che non va in nessun posto con Davide Filippi, Un giovane gambero con Oxana Casolari. Il progetto è a cura del Teatro dei Venti e, per l’occasione, abbiamo sentito il direttore artistico Stefano Tè.
Chi sono gli interlocutori di queste favole?
Gli interlocutori delle Favole al Citofono sono gli abitanti del quartiere che ospita il Teatro dei Venti. Abbiamo istituito una Zona Turchina, un quadrilatero di strade intorno alla nostra sede, e in questo spazio conosciuto ci spostiamo a piedi. Le Favole alla Finestra vengono raccontate ai bambini della Scuola Primaria San Giovanni Bosco, le Favole al Telefono invece raggiungono gli ospiti della Casa per Anziani, entrambe le strutture sono di fronte alla sede del Teatro. La prossimità è una scelta politica di questo progetto. Un modo per ribaltare una difficoltà oggettiva in un’occasione di relazione e di creazione poetica. Senza per forza rifugiarci in uno schermo.
Come si svolgono le performance e qual è loro durata?
Le storie sono tratte da Favole al Telefono di Gianni Rodari, durano circa 5 minuti, ma le performance iniziano quando l’attore o l’attrice varcano la porta del Teatro per attraversare le strade del quartiere. Dal costume viene fuori una musica che accompagna il tragitto verso il domicilio dello spettatore che ha precedentemente prenotato. Arrivati a destinazione, gli attori suonano il campanello e dopo il “Chi è” di rito iniziano il racconto. Le Favole alla Finestra si svolgono davanti a ciascuna classe della scuola. L’attore percorre il quartiere con una scala sotto braccio, arrivato davanti alla finestra la appoggia al muro e sale fino ad arrivare alla finestra, per raccontare la favola ai bambini, che restano al banco, e alla maestra. Al telefono, o anche su Zoom quando c’è la possibilità, sono invece i racconti per gli ospiti della Casa Anziani. Nei mesi scorsi abbiamo ideato diversi momenti di spettacolo/incontro al balcone insieme a loro, ma con il clima rigido dell’inverno abbiamo scelto una soluzione più confortevole.
In tutte le declinazioni le storie sono tre, raccontate da tre attori diversi, Il paese senza punta da Francesca Figini, La strada che non va in nessun posto da Davide Filippi, Un giovane gambero da Oxana Casolari.
In questo momento storico la grande faglia di una eventuale Netflix della cultura è, al di là del fatto estetico, il lato economico. Attualmente sono svariate le stagioni teatrali che sono trasmesse online dai teatri che ricevono finanziamenti pubblici. Come viene sostenuta un’iniziativa come quella di Teatro Aperto, che prevede azioni quotidiane nel parco adiacente alla sede del Teatro dei Venti?
Le discussioni su un’eventuale Netflix della cultura ci lasciano abbastanza indifferenti. Non ci sono le prerogative artistiche, economiche, tecnologiche e produttive per poter interessare anche noi. Certo, se si sprecano denari pubblici per un’operazione fallimentare, anziché impiegare quelle risorse per far lavorare le compagnie, questo ci fa incazzare, perdona il linguaggio schietto.
La nostra scelta fin da marzo è stata quella di evitare il teatro in streaming come soluzione semplicistica che rischia di impoverire il nostro rapporto con lo spettatore. Abbiamo preferito lavorare a soluzioni diverse. Certo non abbiamo escluso l’utilizzo della tecnologia per proseguire il nostro lavoro, ma l’abbiamo piegato alle nostre esigenze. In carcere, ad esempio, siamo riusciti a proseguire le prove da remoto durante il lockdown, con molte difficoltà legate al mezzo, alla connettività, ma siamo riusciti a proseguire le prove per il futuro Odissea, a lavorare sulla scrittura, sulla drammaturgia, sulla memoria. E con il materiale video abbiamo prodotto un film, Odissea Web, realizzato insieme al regista Raffaele Manco e a Vittorio Continelli, che ci accompagna nella drammaturgia dello spettacolo definitivo.
Tornando a Teatro Aperto, questo progetto è un dono, è la nostra volontà di essere utili in un momento di difficoltà nel mantenere relazioni di vicinanza. Abbiamo una sede, una bottega artigiana, che non può restare chiusa. Anche se non può accogliere il pubblico, l’officina è sempre aperta, gli attori si allenano, sperimentano soluzioni artistiche e organizzative per far fronte alle esigenze future. Allora perché non dedicare una parte del nostro tempo ad azioni artistiche che abbiano un’utilità sociale? Manteniamo le relazioni con la nostra comunità più prossima, quella del vicinato. Secondo noi questo è uno straordinario lavoro sul pubblico. Quindi Teatro Aperto è un investimento.
Quali sono le sensazioni, personalmente, che attraversano questo momento, rispetto al lockdown della prima ondata della pandemia? Cosa viene detto agli artisti che erano stati programmati nei prossimi mesi?
La cosa sconfortante è che non viene detto niente. Si attende. Almeno a livello ministeriale. A livello locale gli interlocutori politici mostrano attenzione, cercano di farci sentire la loro presenza e di accompagnare la nostra azione sul territorio.
Invece i committenti che avrebbero dovuto ospitare i nostri spettacoli, Moby Dick in particolare, hanno reazioni differenti a questa perdurante difficoltà. Alcuni si sono eclissati, altri ci dicono di attendere, altri ancora stanno fissando le date per il prossimo anno. Ma il Teatro dei Venti è nato come un’officina creativa, si fonda sul lavoro di un “gruppo di ricerca”, attori che quotidianamente si incontrano per allenarsi, al di là della preparazione di uno spettacolo. Dunque siamo preparati al lavoro quotidiano, a un approccio artigianale che ci suggerisce di non lamentarci, o di farlo nelle sedi e nei momenti che riteniamo necessari. Moby Dick avrebbe dovuto fare più di venti repliche nell’anno che sta per finire, ma è stivato in un container. Questa condizione ci mette alla prova, ma non ci fa rallentare.
Detto questo, non ha logica proibire a spazi culturali di operare, almeno con la corsistica, nel pieno rispetto delle norme. Non si possono fare corsi con dieci persone in spazi molto ampi e arieggiati, ma si può accedere a luoghi di culto e pascolare liberamente in centri commerciali.
Il fine di questa operazione è chiaramente eliminare parte di un settore. Quella più fragile. Quella parte fuori da FUS e tutele varie.
Siamo talmente in sofferenza che non riusciamo neanche a fare rete. Ognuno è troppo preso dal cercare vie d’uscita. Ma non ci sono vie di uscita.