Oltre il frame, l’intangibilità del corpo: la Biennale Teatro in bianco e nero di Katia Ippaso

Courtesy La Biennale di Venezia. Foto di Andrea Avezzù

Dopo aver indagato le trame interiori del rosso e del verde, Stefano Ricci e Gianni Forte hanno consegnato, per l’ultima edizione della loro Biennale Teatro, le sfumature del nero e del bianco. Per dare un’idea della piega che ha preso Niger et Albus (il titolo dell’edizione 2024) nel tentativo di superare il manicheismo del giudizio sociale a favore della complessa identità del singolo, faremo tre esempi. Il primo ci porta in uno dei dominii della drammaturgia contemporanea, nell’universo di Tim Crouch, autore e attore britannico tra i più brillanti e perturbanti. Senza nessun travestimento, armato solo della sua lingua alta e vigorosa, Crouch ha voluto condividere con gli spettatori la posizione etica, ancor prima che estetica, di un artista che, alla soglia dei 60 anni, arriva a chiedersi: il teatro è ancora vivo? A chi serve questo rito in un’epoca di distrazione di massa? Quale è il ruolo di un drammaturgo? Usando un unico oggetto di scena (un finto visore di realtà virtuale) che diventa maschera e simulacro, Crouch immagina di vedere se stesso nei panni del fool del Re Lear e tutti gli altri personaggi della tragedia shakespeariana come pedine di un gioco di ruolo, pupazzetti sempre più piccoli che abitano un paesaggio sempre più irreale di un quotidiano sempre più alienato. La cosa potrebbe anche scivolare verso un discorso ampiamente conosciuto, allacciato all’esperienza traumatica della pandemia che ci ha obbligato alla cameretta e alla solitudine.

Courtesy La Biennale di Venezia. Foto di Andrea Avezzù

Ma l’espediente non è il fine. Ed è così che, in tutta levità, alternando la lingua alta di eco shakespeariana con un linguaggio affilato dallo spirito d’osservazione del tempo presente, il drammaturgo e performer inglese ci conduce, con il suo assolo Truth’s a Dog Must to Kennel in un territorio desolato, in cui sembrerebbe non esserci più traccia di vita: morti gli attori, morti gli spettatori, morti gli esseri umani. Ma anche questo non è che un passaggio di un’esperienza labirintica in cui la parola arriva a nominare ogni infrazione alla norma, ogni possibile gesto di disobbedienza: sembrava l’apocalisse, invece è una chiamata alle armi, un invito a risvegliarci. Per uscire dalla letargia, sembra dirci Crimp, potremmo cominciare a guardarci gli uni con gli altri. Ciascuno con la sua domanda di senso e la sua porzione, insostituibile, di realtà.

 I Fag Fighters di Öhrn e Radziszewski

Un secondo esperimento liminale porta il titolo di Phobia ed è il frutto della collaborazione tra Markus Öhrn, artista visivo e regista teatrale svedese trapiantato a Berlino, e l’artista polacco Karol Radziszewski, attivista queer e giornalista (dal 2005 è editore e caporedattore di “Dik Fagazine”, nel 2015 ha fondato il Queer Archives Institut) che ha portato, oltre al suo immaginario radicale, anche una compagnia eccellente di attori polacchi in grado di usare la maschera e la voce in maschera in un modo netto, rituale, drammatico e comico insieme. Suddiviso in tre movimenti, Phobia si apre con un classico pranzo di famiglia: madre, padre e figlia mostrano tutti i loro buoni sentimenti (sono “gay friendly” e vanno alle manifestazioni), mentre mangiano un cibo rigorosamente vegano.

Foto di Maurycy Stankiewicz

La bambina vuole prendere in adozione un cane indiano, anche se è senza zampe, forse proprio perché è senza zampe: è il momento apicale di un frammento geniale di “dramma conversazione”, che si radicalizza con l’entrata in scena dei Fag Fighters, un’unità di guerriglia urbana nata dalla fantasia di Radziszewski: muniti di passamontagna rosa shocking (pare che questi sorprendenti berretti siano stati realizzati a mano dalla nonna dell’artista polacco), i terroristi queer irrompono con la loro cassetta degli attrezzi (di tortura), anch’essa rosa shocking. Dopo aver sottoposto i tre a un impietoso test di storia sulle figure “queer” della cultura e dell’arte polacca, i combattenti gay si accaniscono su padre e madre, risparmiando la bambina, ma solo perché aveva superato il test. Il secondo movimento, di certo il più estremo, si svolge nell’ufficio di un “boss”, il capo di una società di moda che si vanta di aver ideato una linea concepita per tutti i generi e i colori: bianchi, neri, etero, gay, lesbiche, trans, giovani, vecchi. Lui crede, per questo, di farla franca. Incalzato dai Fag Fighters, comincia però a balbettare, rivelando in poche mosse l’aspirazione puramente affaristica della società liberale, capace di ridurre in merce qualsiasi elemento di differenza e dissenso (il riferimento è al fenomeno del Pinkwashing, stile delle multinazionali che nel promuovere i loro marchi non esitano a fare anche delle persone Lgtbq+ soggetti-oggetti di consumo, ci fa sapere Radziszewski). A quel punto, la punizione sarà brutale. Sebbene l’elemento giocoso, umoristico, renda ogni scena sopportabile, non sfugge all’auditorio la seria crudezza del discorso, che arriva a fare un salto mortale nel terzo movimento. Interpretato da un attore polacco, è lo stesso Markus Öhrn, alla fine, a diventare vittima dei Fag Fighters. Scena tellurica, travolgente, che arriva a smontare ogni tentativo di addomesticamento e normalizzazione, compreso quello che passa per il gesto artistico: «Che cosa ci devi spiegare tu, svedese, sull’omofobia in Polonia? A che ci serve il tuo teatro?» gli urlano i Fag Fighters, prima di fare (figurativamente) scempio del suo corpo. Spietato, folle, esteticamente e teatralmente ineccepibile, colorato, corrosivo, originale fino al parossismo: Phobia non è uno spettacolo che si potrà facilmente dimenticare.

Foto di Maurycy Stankiewicz

 Dorian Gray secondo Gob Squad

Il discorso sull’arte prende poi una piega quasi romantica con Creation dei Gob Squad, collettivo anglo-tedesco che a Venezia ha ricevuto il Leone d’Argento. Ispirato a Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde, lo spettacolo offre una sequenza di “set” smontati e rimontati a vista. Come è noto, Wilde elabora il tema faustiano dell’anima venduta al diavolo in cambio dell’eterna giovinezza. Il fatto che a invecchiare sia il quadro al posto dell’uomo non è irrilevante. Di certo non lo è per i Gob Squad che sul rapporto tra “frame” e opera d’arte hanno a lungo riflettuto. La cornice diventa elemento centrale nel processo di creazione e nominazione del corpo estetico.

Courtesy La Biennale di Venezia. Foto di Andrea Avezzù

Sul palcoscenico, gli attori del collettivo (che vanta 30 anni di vita e arte plurale, non gerarchica) introducono attori e danzatori di varie età, incontrati a Venezia, ragazzi che stanno facendo i primi passi nel teatro mischiati a donne e uomini che hanno speso la loro intera esistenza sul palcoscenico: artisti poco noti al grande pubblico che, grazie alle interviste in tempo reale dei Gob Squad, diventano i veri protagonisti dello spettacolo. Dediti ad un teatro meno avanguardistico di quello che siamo abituati a vedere alla Biennale (alcuni di loro si sono occupati per decenni della commedia dell’arte), gli artisti italiani si trovano a giocare una partita importante. Al giovane viene chiesto come si immagina da vecchio, al vecchio cosa vede di sé nel volto del giovane. Mentre una cinepresa ingrandisce i dettagli, le espressioni. Il gioco del raddoppiamento si moltiplica all’infinito, spingendo dentro ciò che è fuori dal frame e spostando fuori ciò è dentro il quadro. Ad un certo punto, però, il dispositivo si blocca. A quel punto, un’attrice del Gob Squad, Johanna Freiburg, si sveste. Quante scene di nudo abbiamo visto? Infinite. Eppure, questa scena è diversa. L’attrice non è né giovane né vecchia. Non è snella né grassa. Nessun dogma estetico si è imposto alla sua mente, nella battaglia ha vinto lei, pensiamo mentre la osserviamo camminare sul palcoscenico, con lentezza. A quel punto spariscono le cornici, i quadri, gli specchi. Non c’è tableaux vivant che possa contenere quel corpo. Qui c’è solo una donna di 53 anni che si mostra nella sua disarmata verità. Fuori dal frame, nell’intangibilità del corpo. Ed ecco che il “reale” irrompe in tutta la sua bellezza, facendo precipitare parete, schermo, giudizio estetico. Inassimilabile, non commerciabile, non scambiabile: il gesto artistico non ammette compromessi. Nella sua nudità, quel corpo di donna libera così, anche solo per un attimo, quel bisogno sconfinato di accettazione che giace sepolto al fondo di ogni esistenza.

Courtesy La Biennale di Venezia. Foto di Andrea Avezzù