Quando ormai un quarto di secolo fa Kate Winslet viaggiava su quel Titanic che le avrebbe guadagnato il riconoscimento internazionale insieme alla seconda candidatura all’Oscar, ancora non sapeva che sarebbe stata lei a poter urlare di essere la regina del mondo, imitando il grido di James Cameron alla premiazione. L’urlo del regista era un’eco del personaggio di Jack, che DiCaprio aveva fatto sgolare a prua mentre passava sopra l’oceano digitale che avrebbe cambiato la storia del cinema per sempre. La sua amata Rose, le braccia aperte davanti a lui, avrebbe già potuto vedere di essere lei in testa alla nave.
Winslet non recita, ma regna. Ogni suo film è un mondo del quale impadronirsi, un microcosmo che sembra iniziare e finire con lei, come quella nave mai salvata dal piroscafo Californian. Dopo essere sopravvissuta al naufragio, l’attrice ha continuato a immergersi in una serie di ruoli da dominare, dalla giovane filosofa Iris Murdoch in coppia con Judi Dench alla smemorata Clementine di Eternal Sunshine of the Spotless Mind di Gondry, fino alla ex-nazista analfabeta di The Reader, che le fece vincere finalmente la statuetta. La fama mondiale acquisita dopo il film di Cameron salta all’occhio quanto la stranezza delle parti scelte dopo: una serie di film indipendenti e ricercati, accompagnati dalla disaffezione allo stardom di un’attrice che conserva gli stessi agenti da trent’anni. La scelta di ruoli impegnati a cui dedicarsi senza seguire i cachet più invitanti è, a sua detta, ciò che le ha evitato di bruciarsi presto con i successi facili che le venivano prontamente offerti dopo Titanic. La sua nave non volle rischiare di inabissarsi in fretta, si fece sottomarino per rimanere a galla, calandosi nei ruoli con un mimetismo che buca il personaggio, attaccandogli la personalità magnetica dell’attrice con la saldezza di un’àncora sul fondo. Se si eccettuano i tratti più esterni e accidentali delle figure che interpreta, Winslet non si adatta come un camaleonte ai suoi personaggi, come si sente spesso dire di attori come De Niro o Day-Lewis, in una serie di stereotipi maschili invadenti su interpreti invasi dal demone del “dispossessamento” attoriale. Con Winslet, i personaggi sono strumenti che esprimono le mille facce della sua personalità, come fossero maschere del teatro shakespeariano conservate dalle visite fatte in gioventù al Bardo, sullo schermo e off-screen.
Scandagliatrice dell’animo umano, Winslet riemerge più trionfante che mai dal mare per farsi Mare, detective di Omicidio a Easttown (Mare of Easttown). La miniserie, che ha debuttato su HBO il 18 aprile ed è approdata da noi il 9 giugno per Sky Atlantic, ha già ricevuto l’acclamazione della critica americana, che ha persino scritto articoli che tessono le lodi dell’IQOS della protagonista. Se Winslet è la regina dei mondi che esplora, Mare sembra una nobile decaduta della sua città di provincia, nella quale tutti la conoscono ma pochi sembrano rispettarla abbastanza da non mentirle mentre cerca di risolvere l’omicidio del titolo. Capiamo presto che le menzogne che le vengono rivolte sono torbide come l’acqua del fiume dove la ragazza uccisa viene trovata nel primo episodio. Compito della detective sarà quello di trovarne l’assassino in una folla di conoscenti che potrebbe ricordare uno svogliato pranzo domenicale in famiglia: cenni dati con ovvietà, parenti che si salutano, persone note con le quali Mare scambia parole con la disinvoltura e la noia di chi può dire “il solito” al barista.
La sfida della protagonista è quella di capovolgere il monotono reticolo di conoscenze della città fittizia in un circuito che le suggerisca il codice per risolvere il caso. Questo «inverno del discontento» deve trasformarsi in un disgelo che restituisca il regno alla sua più piena estate, quella in cui i nodi vengano finalmente sciolti. Riappropriarsi di un mondo, confondersi con esso. Il riduttivo titolo italiano ha un merito inaspettato, che è quello di dare la protagonista per scontata, quasi che il suo nome facesse già tanto parte dell’omicidio da non renderne necessaria la menzione, e si nascondesse con disinvoltura nella trama come l’Inghilterra dell’attrice nella dicitura del Regno Unito. Mare è quella che si identifica col risolvere omicidi, punto. Anche se farlo significa evadere i propri problemi personali, per esempio non affrontare il suicidio del figlio, avvenuto anni prima. Mare risolve delitti per non risolversi la vita.
Ogni buon giallo che si rispetti fa fare al detective lo stesso percorso del narratore: ricostruire pezzo per pezzo una trama nascosta, che è già pronta lì sotto, è già avvenuta, bisogna solo scavare. Tocca a noi, pubblico, seguire entrambi in questo percorso. Ma se i lettori/spettatori sono solo il detective, il narratore è anche l’assassino, che si nasconde e inganna i poveri investigatori depistandoli con indizi fasulli. Lo sceneggiatore Ingelsby (Tornare a vincere) e il regista Zobel (The Hunt) lo fanno magistralmente, celandosi dietro gli angoli da cui possono sorprenderci pugnalandoci alle spalle. A differenza dei personaggi deceduti, noi siamo lieti di essere trafitti.
La soluzione del mistero finale è punto di allineamento degli astri, filo di Arianna ritrovato, rima in poesia: i capi combaciano, l’assassino e il detective si incontrano e annullano, perché dei due ne rimane (in galera o fuori) soltanto uno. Ma la grandezza di questa serie, oltre che nel fine rifacimento di questa architettura propria di ogni crime story, sta in come la nostra protagonista, nel risolvere il mistero, si risolva la vita. La narrazione e il suo contenuto, l’investigazione e l’omicidio, sono una coppia che si interseca a un altro duplice binario del personaggio: la risoluzione del caso come unica uscita possibile da una vita distrutta. Se dapprima Mare si dedica alle indagini per fuggire ai propri dilemmi, alla fine soltanto il termine dell’investigazione coinciderà col superamento del suo dramma personale. Decifrare il rompicapo è tentare di localizzarsi all’interno di un labirinto. La detective deve camminare in una geografia in cui le vite delle persone della piccola città di provincia sono tutte intrecciate secondo schemi fissi, e deve ricollocare quelle posizioni in una convivenza più felice con se stessa e con gli altri. La soluzione del delitto è soluzione della vita, delle vite. Spiegato il mistero, il cerchio torna a quadrare.
Non può dunque meravigliarci che la regina che riuscirà a riconquistare la sua Easttown sia interpretata da chi è abituata a regnare nei piccoli mondi a cui approda di volta in volta. Anche Winslet si avvicina a ogni ruolo come a un mistero da svelare. Qui il mistero diventa doppio, sta dentro e fuori, come già in La ruota delle meraviglie, in cui l’attrice aveva dato prova di poter stare in una di quelle storie di omicidi che Woody Allen prende in prestito da Dostoevskij. La sfida e l’interesse aumentano con la difficoltà, per un’attrice che potrebbe interpretare tutti e dieci i piccoli indiani di Agatha Christie. Winslet vede il personaggio americano e comincia a identificarsi come in un oggetto esterno, una vita da incorporare, una cassaforte da aprire. Arriva a Mare come Mare arriva all’assassino. Trova se stessa in Mare come Mare trova se stessa nello spazio tra il delitto e il castigo.
E così tutto di Winslet si fa uno col personaggio: il non voler nascondere la pancia, la mancanza di trucco, quell’aria triste. Mare ha l’espressione di chi vive in un mondo abitato a malincuore ma con grande esperienza e disinvoltura, come chi è sdraiato sul divano da un mese. Winslet ha sempre vissuto lì, quello era un mondo che si portava già dentro, e che ha proiettato fuori sulla Pennsylvania alla quale ha dovuto aggiustare solo l’accento. Quando la sentiamo dire «home» con la “o” chiusa come si fa nell’Inghilterra di un’altra regina, pensiamo alla sua, di casa. Ma poi veniamo a scoprire che quell’apparente errore dell’eloquio fa in realtà parte del dialetto del Delaware County, e capiamo quindi che anche lei, come Mare, è stata capace di costruirsi una nuova dimora.