Oscillazioni tra gesto e archivio di Paolo Ruffini

Foto di Margherita Masè

Roberta Nicolai persegue una linea compositiva che va sempre di più chiarificandosi con il tempo, cosicché il festival Teatri di Vetro, giunto alla sua diciottesima edizione quest’anno, sembra assumere finalmente la fisionomia di un corpo senza organi (non vale nemmeno la pena riportare la citazione, giusto?), una tavolozza da lavoro pittorico dove i colori travasano da un formato iperrealista a materie intangibili, quasi metafisiche, in quella trasparenza (il vetro docet) di “valori” performativi che si innestano l’uno nell’altro nei lavori scenici presentati. Oscillazioni è la sezione dedicata alla presentazione, alla apertura al pubblico dei progetti-spettacolo negli spazi del Teatro India di Roma (dall’11 al 21 dicembre scorso), “luogo” per certi versi inteso come verifica laboratorio in particolare per quegli artisti accompagnati stabilmente dal Festival, scelta curatoriale nel sottolineare un ambito, un raggruppamento di figure nel contesto della “danza” e non solo (e, ancora una volta, definire la danza in questo corpus iperbolico diventa una scommessa dialettica) e di cui la sua direzione artistica si fa carico responsabilizzandone la continuità.
Ci sono testi di recente pubblicazione che pongono l’attenzione sulla necessità di «tener in vita la relazione maestro-erede» denunciando lo svuotamento del ruolo dell’università (G. Lorizio, L’esilio dei maestri e dei discepoli, in Agorà – Avvenire, 20 dicembre 2024, p. 19); senza entrare nel merito di riflessioni volte a circoscrivere le falle dell’accademia (anche perché non è così ovunque), è interessante cogliere però come, proprio in quella relazione maestro-erede o altrimenti detta archivi e lasciti recuperati in forme non necessariamente canoniche (diciamo tradizionali?), molto si è prodotto. Se dalla fine degli anni Settanta la formazione di giovani realtà indipendenti passava per una stretta adesione anche ideologica a un modo di pensarsi al mondo attraverso l’arte, negli anni Novanta, per esempio, buona parte degli artisti di quella generazione nata a ridosso del crollo del Muro e del conflitto nei Balcani hanno costruito (e rivelato) una propria equivalenza ideale con una fratellanza o sorellanza maggiori filtrate e poi acquisite attraverso visioni, letture, ascolti, non necessariamente nella trasmissione diretta della pratica, anche quella, certo, ma come portato non preponderante. I gruppi degli anni Novanta, generalizzando, sono stati portatori di una cultura minoritaria, in qualche modo “in rivolta” (anche produttiva o linguistica), mentre oggi, in questa prossimità temporale, si sono estremizzate le intenzioni: da una parte concettualizzando il senso del fare scena mettendo in crisi le grandi narrazioni (anche della tradizione) e, accanto a ciò, dall’altra, pare recuperarsi un racconto di sé (del proprio ruolo artistico) storicizzato (finanche visivo), ovvero aderente a un gradiente dialettico con i tanti livelli “impressionati” (nel senso di impressionistico) della forma. Basti pensare all’esperienza maturata da Operabianco e le interferenze con la Socìetas o con la Valdoca nella ricerca di un soggettivo mutamento della figura del clown, quel clown totem figurale e esistenziale che veglia sulla compagnia da qualche tempo.

Foto di Margherita Masè

Una delle artiste che meglio sintetizza questo rapporto di continuità nel panorama offerto da Teatri di Vetro è sicuramente Alessandra Cristiani (alla quale si è dedicato un focus dei suoi lavori); grumo di complessità gestuale e spostamenti percettivi di un farsi memoria, la Cristiani è una outsider della scena del presente, anche in quella riappropriazione derivativa del butō ma sempre prolifica di “comportamenti” figurali che depotenziano il corpo, un corpo in quell’essere singolare e plurale al contempo. Il suo percorso è un corollario di istantanee che si rapprendono, come un fiato interrotto, un corpo trans-lucido benché fortemente e muscolarmente corporeo, un segno nell’assoluto vuoto che risplende, anzi grida oltre il silenzio. Caduta la neve è il pertugio spettacolare “adagiato” sul palcoscenico per questa edizione del festival, un lavoro sinestetico consegnato all’immaginario della fotografa Sarah Moon alla quale si ispira (o con la quale sembra dialogare), in quel battere di ciglia nella frazione di secondo (direbbe la fotografa) in cui tutto accade. La scena è uno spazio non connotato, se non per una palina-orologio che segna il nostro stesso tempo, un’azione che si compie nel reale dunque, che modifica la condizione dello spettatore nell’essere nella stessa impronta della performer, nello stesso idioma. Infrangerà quel vetro, nonostante i minuti continuino a trascorrere correttamente, è allora un trauma o una epifania? C’è la nudità che articola su di un piccolo sgabello, le eversioni fisiche che aprono a passaggi coreografici più ariosi e a momenti più intimi, meno “spettacolari” (che qui la Cristiani appronta con minime circostanze, anzi parrebbero private), in una definizione di sé in questo lavoro profondamente assoluto.

Foto di Margherita Masè

Ha invece una levità opposta, una grafia quasi impalpabile quella di Lucia Guarino con il suo Pinocch-io, rivisitazione in “assenza” della fiaba di Collodi. Opposta alla corporeità della Cristiani e in “assenza” per la manifesta scomposizione degli elementi che la performer riversa sulla scena. Ancora una scena disadorna, o meglio adornata dagli elementi di cui si servirà per questo non-racconto con il naso-asta che funge da barometro di una “temperatura” sul limite della trasfigurazione. Vestizioni, posture macchiniche si fanno corpo, si immolano alla decostruzione di una narrazione alla quale potremmo essere abituati, ma per non rischiare questo burattino alter ego della Guarino ci appare persino come un gesto strutturalista, un aggregato organico di elementi e parti, sintesi nella sua funzionalità dell’insieme delle relazioni tra oggetti, azioni e corpo.

Foto di Margherita Masè

Una intersezione del corpo con elementi della natura è quella di Silvia Gribaudi, ormai scintilla iridescente nella danza contemporanea che affronta lo spazio dello spettacolo come messa in crisi del concetto stesso di spettacolo. Impegnata con la performer Tereza Ondrovà in questo percorso che va a sedimentarsi nei luoghi, debutta con Insectum in Rome, versione tutta capitolina per la platea di Teatri di Vetro, un lavoro ispirato da un altrove matido di libertà feconde che fa a meno della parola, sostituita questa da gesti prossimali con lo spettatore; è indicato nel programma del Festival l’archetipo, il luogo originario (la fotografia – ancora una fotografa – di Elisabetta Zavoli, Manaus e l’Amazzonia come mondi capovolti rispetto a un cosiddetto Occidente falso formulario di precetti democratici), una nuova indagine sullo stare al mondo, imparare a viverlo questo mondo partendo da un altro punto di vista, quello degli elementi che governano l’ambiente. È attraverso questo rapporto (anche soltanto idealizzato) che la «visione del mondo dal punto di vista dell’insetto» raffigura uno spostamento del baricentro, un ribaltamento della percezione, un cambio di posizionamenti e di territori consolidati (anche quelli dello spettatore grato da sempre del suo spazio di sicurezza). Tuttavia, lo spettacolo esorbita, piccole frazioni nei gesti o negli spostamenti che le due performer invitano a compiere agli spettatori riescono a scompaginare la platea, occupando posti, ridefinendo il rigore della forma rito (dello spettacolo), trascinando tutti e tutte verso un fuori liberatorio e divertente.

Foto di Margherita Masè

Due processi in progress sono significativi per la loro occasionalità compositiva, la loro condizione di intrinseca fragilità, così dichiarata, aperta, posizionata in quel superamento della loro stessa forma data, due emisferi scenici opposti eppure convergenti, se non altro per la messa a disposizione di materiali che imbastiscono lo spazio per essere lì “manomessi” in diretta, riconfigurati, in una possibilità ulteriore che sera dopo sera potrebbe cambiare struttura di quegli stessi materiali: è il caso di Deteriorate della compagnia Dehors Audela e di Una nascita – appunti su Forugh Farrokhzād della compagnia Bartolini-Baronio. Se nel primo si “manipolano” fotografie con l’ausilio di reazioni chimiche, sì da rendere l’effetto parlante di quel materiale, di una vocalità in apnea, portatrice di una propria storia che si connette alla memoria anche personale delle autrici in quell’andamento narrante tra accenni di testo e immagini che si scompongono e ricompongono; una splendida impressione archeologica e rizomatica (come un quadro della Tragedia Endogonidia della Socìetas dove la nostra indagine alla ricerca dei particolari trova liberamente suggestioni nelle giustapposizioni cromatiche che ne intessono la drammaturgia percettiva) di questo lavoro di grande spessore tensivo. Altrettanto pregno di memoria, come una ferita che solo la poesia (vera) sa dare, il lavoro della compagine Bartolini-Baronio si concentra per contro sulla vita della poetessa iraniana Forugh Farrokhzād, ma è ancora uno spazio-laboratorio di lettura, parti musicali e archivi personali (oltreché di materiali che sono usati come frammenti del corpo), un ritratto che il duo fa a una voce libera. Toccante in quel suo procedere memoriale, documento visivo e riflesso in scena (uno spazio di lavoro al centro del palcoscenico) dove le due protagoniste sembrano ricucire la vita “eversiva” della poetessa iraniana (e autrice di un documentario su una comunità di lebbrosi) scomparsa giovanissima nel 1967. Una nascita è un non-spettacolo, un incipit di debordante bellezza, una scomposizione del tempo su una figura-emblema capace di riportare quello stesso fragore biografico anche nel teatro.

Foto di Margherita Masè

Trickster di Operabianco è uno spettacolo. Nulla rimanda a un’ipotesi in fieri, anzi, la confezione è calibrata su tempi e paradossi gestuali compiuti, una partitura fortemente fisica con un protagonista che “argomenta” un fuori da sé da archivio antropologico (aggiornato agli statuti del glam pop), in quella tipologia storico-religiosa di figure mitiche da archetipo del teatro (e del mistero). Un solo performer agisce la scena tutto il tempo, entrando in collisione col pubblico, contorcendosi, facendo piroette, usando il corpo come detonatore, una vera forza della natura (il veramente bravo e sorprendente Luca Piomponi) che fa deflagrare la sua fisicità con accenti persino picassiani. I riferimenti sono Francis Bacon (di cui si rintracciano certe deformazioni da Logica della sensazione di Gilles Deleuze osservate nei trittici pittorici) e Buster Keaton (non pervenuto, ma parrebbe una conditio sine qua non della compagnia), si erge una sorta di intercapedine tra il fondale e il palco ad uso di retro-proiezioni ambientali, mentre si compone un letto-branda su di un lato che (inevitabilmente) verrà utilizzato dal performer piombandovici sopra e reiterandovi una medesima esuberanza fisica che tanto ricorda Amleto. La veemente esteriorità della morte di un mollusco, senza quel dolore che governava lo spettacolo della Socìetas. Trickster ha dalla sua la combustione di un lavoro sempre al limite del fiato e delle possibilità, premendo l’acceleratore sui possibili alfabeti del gesto gestiti dal performer con precisione e ben guidato dal duo Schino-Bichisao.

Foto di Margherita Masè