“Palazzina Laf”: la classe operaia non va in paradiso di Anna Maria Sorbo

Con la bella stagione tornando il cinema en plein air, tra le molte proposte in cartellone nelle arene estive ci affrettiamo a segnalare, a chi l’avesse persa alla sua uscita in sala, Palazzina Laf, opera prima dell’attore pugliese Michele Riondino già meritatamente pluripremiata con 5 Nastri d’Argento, 3 David di Donatello e il neoistituito riconoscimento ANICA 80.
La storia – vera – è quella della Palazzina Laf del titolo, edificio in disuso nel complesso tristemente noto delle acciaierie (ex) Ilva di Taranto nel quale venivano confinati i dipendenti “sgraditi” alla proprietà, vuoi perché politicizzati vuoi perché, semplicemente, troppo specializzati. Proprio così: del resto siamo nel 1997 e in epoca di privatizzazione galoppante; il grande polo siderurgico dell’Italsider di Stato è passato nelle mani della famiglia Riva e sta andando in scena il prototipo tutto italiano di ogni esempio di ristrutturazione aziendale che non si rispetti, dove pochissimi sono a beneficiarne e la stragrande maggioranza a perderne. Primo caso acclarato di mobbing, sancito come ci ricordano i titoli di coda con la condanna in tribunale di Emilio Riva e alcuni manager per violenza privata e frode processuale.
Ma prima che si arrivasse alla conclusione giudiziaria furono 79 le vittime di quel modo di fare da padrone delle ferriere: 79 uomini e donne costretti a trascorrere l’orario di impiego completamente inattivi, piantonati in quegli uffici fatiscenti, deprivati della loro dignità di lavoratori e non solo, esiliati in un purgatorio sine die a meno di non accondiscendere a un sostanziale – e inadeguato alle loro professionalità – demansionamento. Una condizione deprimente che sfociava tra gli internati in evidenti manifestazioni di disagio psicologico, come riconobbero appunto i giudici.

Tutto questo è raccontato nel lungometraggio di Riondino con la cura e la forza di ben sette anni di lavoro di ricerca e indagine, ma l’estro creativo o chiamatelo come volete dell’esordiente regista sopravanza (felicemente, verrebbe da dire) l’intento del Riondino attivista di documentare, riportandola all’attenzione, una vicenda finita nel dimenticatoio, sommersa nel mare inquinato di inchieste, denunce e procedimenti che hanno avuto e hanno per oggetto la fabbrica che uccide, che ormai – tant’è – non fanno neanche più notizia. Il risultato è un prodotto artisticamente compiuto, sorprendente per sviluppo e scelte narrative, impregnato di un’anima amara e scura (di cui sembrano suonare a presagio le note iniziali della colonna sonora di Teho Teardo), che vira la denuncia dell’episodio altrimenti di cronaca in commedia grottesca e tragica.
Fin dalla sceneggiatura, scritta dallo stesso regista con Maurizio Braucci, il peso da portare a spalla come statua in processione è affidato al protagonista Caterino Lamanna (ne veste perfettamente i panni Riondino medesimo), il classico operaio addetto agli altiforni, e però ignorante e strafottente, soprattutto incapace di comprendere l’aberrazione che si cela nelle mura della Palazzina Laf. Per questo, quando il bieco dirigente Giancarlo Basile (un altrettanto strepitoso Elio Germano) gli offre in cambio della promozione a caposquadra e di una Panda sebbene malmessa di riferirgli quello che succede in giro, insomma di fare la spia, Caterino accetta e rilancia, proponendo di infiltrarsi proprio tra i “privilegiati” ospiti della palazzina, stipendiati senza dover sudare di caldo e di fatica, non facendo nulla, la pacchia più assoluta.
Da queste premesse non ci si aspetti uno scatto, una presa di coscienza da parte di Caterino che ribalti l’istinto di conservazione in lui primigenio: la sua resta una via Crucis sospesa tra visioni oniriche e reali emblemi, entrambi urlanti ma inascoltati, senza sacrificio e men che meno resurrezione. Per i Lamanna come per chiunque, nessuno escluso.

Palazzina Laf è prodotto da Palomar, Bravo e Bim Distribuzione con RAI CINEMA.