Parlare di radio oggi dove, nel mondo delle comunicazioni, si è immersi in un continuo flusso di immagini, può sembrare anacronistico ma il mezzo, grazie alla sua specificità relazionale, tende costantemente a rinnovarsi così da conquistare sempre nuovi aficionados a dispetto del progresso che la vorrebbe in declino.
Eugenio Finardi, nella canzone La radio ben descrive le sue peculiarità: «Amo la radio perché arriva dalla gente, entra nelle case, ti parla direttamente. (…) Con la radio si può scrivere leggere o cucinare. Non c’è da stare immobili seduti lì a guardare. E forse è proprio questo che me la fa preferire: è che con la radio non si smette di pensare». Quando ho ricevuto l’invito ad assistere, presso il Teatro della Cometa di Roma, alla presentazione di un libro ad essa dedicato ho con entusiasmo aderito all’evento leggendo, immediatamente, il lavoro proposto in quella sede.
Savino Zaba, noto conduttore radiofonico e televisivo (ma anche cantante e attore), si è voluto cimentare nella scrittura, redigendo Parole parole… alla radio, al fine di introdurre il lettore alla storia del «linguaggio radiofonico dalle origini a oggi».
Si tratta di un piccolo “saggio” in cui, oltre a ripercorrere per sommi capi la storia del broadcasting Italia, si discute di come sia mutato, nel tempo, il modo di proporsi agli ascoltatori da parte degli speaker.
Dopo la prefazione, interessante e piacevole, scritta da uno dei maggiori cultori della materia in Italia Renzo Arbore, il libro di Zaba narra della nascita, nella penisola, della radio di Stato. Si parte da quel lontano 1924 quando la stazione 1-RO di Roma, gestita dall’U.R.I., Unione Radiofonica Italiana (poi E.I.A.R., Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) cominciò le proprie emissioni per poi proseguire nell’individuare i momenti storici che decretarono l’affermazione e il successo della radio nel Belpaese; nel contempo si analizza il linguaggio radiofonico dei primordi. L’EIAR pretendeva, dai propri conduttori, l’uso di una dizione chiara e di un italiano perfetto, privo di inflessioni regionali. Nel Manifesto della Radio, di Enzo Ferrieri, regista e sceneggiatore dell’EIAR si: «auspicava l’adozione, per le trasmissioni parlate, (…) “di uno stile adatto alla radio” che seguisse un “metodo rigorosamente sintetico”» e si spinse anche a suggerire: «l’istituzione di “una scuola delle voci”». Le finalità erano quelle di creare delle basi culturali “condivise”, indispensabili per l’unificazione linguistica in un paese arretrato nonché contribuire all’indottrinamento ideologico imposto dalla dittatura fascista.
Se il secondo dopoguerra, con l’arrivo della democrazia e delle influenze musicali americane, portò ad un maggior uso ricreativo della radio, al conduttore radiofonico erano ancora richieste una dizione e una pronuncia impeccabili. Anche agli autori veniva suggerito di porre estrema attenzione nella produzione dei testi, pretendendo che venissero redatti in una forma appositamente pensata alla diffusione via etere. È nel 1953 che in RAI fu realizzato uno dei documenti più interessanti mai prodotti sull’argomento: Le norme per la redazione di un testo radiofonico di Carlo Emilio Gadda. Il futuro autore di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, infatti, ingaggiato nell’Ente di stato, quasi annoiato dal lavoro assegnatogli, si impegnò nella stesura (tra il serio ed il faceto) di un opuscolo di riferimento “normativo” al quale era bene attenersi per la realizzazione di elaborati destinati alla radiodiffusione. Savino Zaba ci chiarisce come, in un periodo in cui normalmente l’autore del testo non corrispondeva a colui (o colei) che l’avrebbe letto, Gadda suggerì un uso di un registro linguistico: «il più vicino al ”comune discorso”, alla quotidianità e alla colloquialità che al registro alto delle occasioni formali».
Per i più curiosi e per comprendere come fosse sentito, in RAI, il problema di un uso corretto della lingua italiana e di una perfetta dizione, priva di intonazioni regionali, suggerisco, a titolo personale, di vedere l’episodio parodistico Guglielmo il Dentone, con Alberto Sordi, tratto dalla pellicola I complessi del 1965.
Parole parole… alla radio termina con degli «stralci di conversazione», raccolti dall’autore, ad alcuni noti Speaker, Disk Jockey e conduttori radiofonici, sull’attuale “valore” del testo gaddiano. Tra le persone contattate sono da citare Carlo Conti, Linus, Michele Mirabella, Rosaria Renna, Enrico Vaime e Zap Mangusta. I soggetti interpellati forniscono una personale analisi del “percorso antropologico” seguito dal linguaggio radiofonico in Italia. Di fatto la “liberalizzazione” comunicativa, assieme al mutamento del modo di presentarsi “in voce”, avviene in poco più di un decennio. Da una conduzione totalmente “ingessata”, tipica della RAI anni Cinquanta e Sessanta, si passa ad un primo rinnovamento grazie alla realizzazione di programmi dedicati alla “musica dei giovani”: Bandiera Gialla e Alto Gradimento.
La definitiva trasformazione del conduttore “maestro di cerimonie” a quella di intrattenitore “amico” e “padrone di casa” si ha, come rammenta correttamente Zap Mangusta, solo a seguito dell’attività delle radio commerciali estere in lingua italiana (in particolare Radio Monte Carlo e Radio Capodistria) e poi, in modo massivo, dal 1976, con la liberalizzazione delle frequenze e la nascita delle radio private.
Concludendo ritengo che Parole parole… alla radio sia un testo di piacevole lettura, pieno di suggestioni dalle quali trarre spunti per ulteriori ricerche. A causa del limitato numero di pagine è, ovviamente, un lavoro non esaustivo, ma grazie alla ricca bibliografia consente, al lettore interessato, di poter trovare agevolmente tutti i riferimenti per approfondire gli argomenti trattati.
Savino Zaba, Parole parole… alla radio, Grauseditore, Napoli, 2017, pp. 80, € 13,00.