Perdere il giardino significa perdere il teatro: Lidi conclude il “Progetto Čechov” di Laura Novelli

Foto di Gianluca Pantaleo

Quando pensiamo al teatro di Čechov, pensiamo essenzialmente alle corde malinconiche di una  levità nostalgica che racconta, pur con sfumature diverse di opera in opera, l’impossibilità di cambiare la vita, le aspirazioni deluse di uomini e donne che vorrebbero essere altro, stare altrove, amare qualcun altro, in uno struggimento a tratti ironico e farsesco, non privo – come è ben noto – di un’acuta polemica sociale ai danni di quel ceto nobiliare ormai al declino divenuto inabile ad essere parte attiva del mondo. Čechov, insomma, possiede – o forse sarebbe meglio dire “sembrerebbe possedere” – una sua netta riconoscibilità, una sua atmosfera. Dettate anche dai molteplici dettagli oggettivi, materiali, ambientali di cui il drammaturgo russo riempie le sue meticolose didascalie. Non per niente, quando pensiamo a Čechov (soprattutto se abbiamo una frequentazione assidua delle scene), ci tornano alla mente allestimenti celebri che hanno segnato la storia del teatro occidentale contemporaneo contribuendo, anch’essi, a costruire un ben preciso immaginario visivo intorno al drammaturgo russo.
Motivo per cui ci potrebbe risultare difficile entrare in sintonia con un Čechov lontano – apparentemente – da Čechov stesso, come è il caso de Il giardino dei ciliegi allestito da Leonardo Lidi (su limpida traduzione di Fausto Malcovati) quale ultimo movimento di una trilogia che, debuttata al Festival di Spoleto quest’estate, ha messo insieme Il gabbiano, Zio Vanja e appunto Il giardino. E li ha messi insieme dentro un ampio progetto di attualizzazione dei tre titoli avviato durante la pandemia da Covid e supportato da idee registiche, drammaturgiche, interpretative molto originali, nuove, che certamente escono dalla consolidata tradizione čechoviana e che, proprio per questo, vanno analizzate come “operazioni” inedite, atte a parlarci di noi, dei nostri tempi così assurdamente complessi e pericolosi, attraverso Čechov.
Il pluripremiato e talentuoso regista – da quest’anno anche direttore della Scuola dello Stabile di Torino – manda infatti all’aria il repertorio registico più consolidato per raccontarci il suo punto di vista. Con onestà, coraggio e buona dose di arbitrio (ma creare significa anche questo). Tanto che Il giardino del titolo diventa il teatro stesso, quello italiano attuale, che versa in uno stato di salute pressoché agonizzante, strozzato tra le regole produttive del sistema pubblico e le esigenze più profonde degli artisti; tra le logiche mordi e fuggi del mercato e il pensiero lento connesso alla fisiologica natura della creatività. «Leggendo Il giardino dei ciliegi di Anton Čechov» – scrive Lidi nelle note del ricco programma di sala – «mi è sempre sembrato palese – e magari ho sempre sbagliato – che il “nostro giardino” è sinonimo di nostro teatro. Ed avendo avuto il Progetto Čechov una validità politica dal suo principio, dal rientro post pandemico con Il gabbiano per interrogarci sul come ripartire nell’incontro con il pubblico, mi sembra stimolante chiudere il cerchio con questo testo così profondo nelle sue domande».

Foto di Gianluca Pantaleo

La domanda delle domande non può che essere quella centrale nel testo stesso: chi salverà questo giardino? E appare da subito una domanda retorica, visto che Lidi e lo scenografo Nicolas Bovey (anche curatore del disegno luci) lo immaginano già perso, già dismesso: il palcoscenico – quello del Vascello di Roma, dove lo spettacolo è stato presentato nelle sere scorse e dove il regista tornerà, a fine stagione, con La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams – è vuoto, avvolto in una quintatura di pesante plastica nera simile a buste per rifiuti che lo rende un luogo periferico, marginale, arredato solo con qualche sedia bianca da pizzeria o bar dozzinali e nel quale domina, al centro, una sorta di pedana/soffitto mobile con luci incassate che si alza, si abbassa, si piega, quasi a voler simboleggiare un teatro dentro al teatro. L’effetto è quello di un luogo sospeso, straniante, dove ancora più stranianti si muovono i numerosi personaggi, affidati ad un cast di bravi attori (peccato il microfono) i quali, pur se diversi tra loro per registri interpretativi e timbri vocali, inseguono una recitazione piuttosto sovraesposta, in levare, a tratti persino caricaturale, e tendono a muoversi molto durante lo spettacolo, facendo balletti, cadute, corse. Ci appaiono, nell’insieme, figure periferiche, marginali, dimesse, proprio come lo spazio che le ospita, e ancor più esse sembrano stridere con “l’atmosfera” čechoviana di cui si diceva sopra per gli abiti decisamente pop che indossano (li firma Aurora Damanti): colori fluo, tessuti acetati, costumi da bagno, pigiamoni di peluche, abbinamenti di colore del tutto improbabili restituiscono l’idea di un paesaggio umano deprivato di ogni eleganza e poesia.
L’unico in frak è il vecchio servitore Firs (l’ottimo Tino Rossi), il fedele testimone di decenni di vita familiare che qui, ormai costretto su una sedia a rotelle (tanto da ricordare per certi versi l’anziano Hamm di Finale di partita), rappresenta proprio il passato, la memoria, la tradizione. E dunque anche il teatro di un tempo, ciò che di questo resta e che serve come gancio, come àncora di salvezza. Non a caso, gli altri personaggi (soprattutto quelli più giovani) si siederanno spesso sulle sue ginocchia per parlare e dialogare e sarà proprio lui a chiudere la pièce, dimenticato da tutti, mettendosi un fazzoletto/sipario sul volto come per congedarsi definitivamente da un’epoca.
Un’epoca nuova è d’altronde arrivata. Ed è quella costruita dallo scaltro scalatore sociale Lopachin (un Mario Pirrello modulato sulla prossemica e su una certa retorica proprie del primo Berlusconi): a lui spetta il compito di annunciare l’arrivo della padrona Ljuba (Francesca Mazza) e del suo seguito, reduci da un lungo soggiorno a Parigi, e sempre a lui spetta il “merito” di acquistare la tenuta, per trasformarla poi in un lucroso terreno edificabile. Due visioni opposte si scontrano e contrastano: due modi antitetici di pensare il teatro.

Foto di Gianluca Pantaleo

La svampita nobildonna innamorata del suo giardino, cui l’interprete regala incisive note nostalgiche e melò (pur con qualche stonatura enfatica), ritorna a casa arrivando – emblematicamente – dalla platea; non ha più il becco di un quattrino e il suo mondo/teatro andrà presto all’asta perché il pensiero che “le cose possano aggiustarsi da sole” è un pensiero magico. Lo dice chiaramente anche il regista stesso: «E va bene inorridire pensando alla ruspa che distruggerà i nostri alberi ma forse dovremmo coraggiosamente prendere per il bavero anche lo zio Gaev che (…) si facilita l’esistenza associando il presente e il denaro alla volgarità. Senza prendere il toro per le corna, decidendo di non essere incisivo. E di perdere. Ma in questo tempo la testa va lasciata fuori dalla sabbia, in questo tempo è importante ribadire a gran voce che il nostro inutile giardino, il nostro teatro pubblico, non si può basare solo sui numeri, non si può valutare solo contando quante ciliegie produce di anno in anno. Altrimenti, ieri come oggi, tanto vale privatizzarlo e farci tante villette per i turisti».
Intorno alla protagonista, complici del suo stesso desiderio di sottrarsi alla realtà, si muove un baraccone di familiari e conoscenti persi nella loro recita smarginata, all’interno del quale risaltano alcune varianti drammaturgico-registiche non poco significative: il fratello Gaev è diventato una sorella pacata, cauta, gentile (Orietta Notari), mentre la dolente Charlotta Ivanovna viene riletta in una grottesca chiave en travesti (la interpreta Maurizio Cardillo) che la rende una figura ancora più fragile e assetata di amore. Un po’ tutti, d’altronde, rincorrono l’amore a modo loro. Forse sentono la minaccia dei Giganti che a breve arriveranno ad invadere la solitaria villa del mago Crotone. E si distraggono come possono, in un via vai apparentemente disordinato di entrate ed uscite che a tratti si apre, però, ad un disegno scenico più armonioso. Come nella scena d’inizio del Secondo Atto del testo originale, laddove Lidi sembra persino voler omaggiare Strehler ambientando la gita in campagna in una spiaggia scoscesa che tanto ricorda il palcoscenico obliquo in cui il regista triestino immaginò questo passaggio della pièce nella sua regia del 1974.
Certamente qui siamo in un Čechov molto diverso ma in fondo ciò che si agita negli animi di questi personaggi in costumi da bagno e pantaloncini colorati è lo stesso senso di sconfitta che vibra nel testo. Ben presto Ljuba dovrà andare via. Tutti lasceranno la grande tenuta ormai perduta. Tutti tranne Firs, l’unico a restare in attesa che il giardino venga abbattuto e che i villeggianti prendano il posto delle ciliegie, della poesia, del teatro. La quintatura di plastica nera, a questo punto, non serve più e il palcoscenico si mostra in tutta la sua verità. E allora ci torna alla memoria un regista estroso e moderno come Georges Pitoëff (1884-1939), che mise in scena l’ultima opera teatrale di Čechov in un panorama di velluto grigio con pochi mobili e pochissimi oggetti perché sosteneva che Čechov era sì atmosfera, ma solo atmosfera di parole.

Il giardino dei ciliegi
Progetto Čechov – terza tappa 

di Anton Čechov
traduzione Fausto Malcovati
regia Leonardo Lidi
con (in o.a.): Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Alfonso De Vreese, Ilaria Falini, Sara Gedeone, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Mario Pirrello, Tino Rossi, Massimiliano Speziani, Giuliana Vigogna
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Aurora Damanti
suono Franco Visioli
assistente alla regia Alba Porto
produzione Teatro Stabile dell’Umbria
in coproduzione con Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Spoleto Festival dei Due Mondi.

Teatro Vascello, Roma, dal 3 all’8 dicembre 2024.

Prossime date:
Teatro Manzoni, Monza, dal 13 al 15 dicembre 2024
Teatro Sociale, Como, 18 e il 19 dicembre 2024
Teatro dell’Unione, Viterbo, 21 dicembre 2024
Arena del Sole, Bologna, dal 9 al 12 gennaio 2025.