C’è qualcosa di meraviglioso e insondabile in questo Perfect Days di Wim Wenders, già in concorso all’ultimo Festival di Cannes e attualmente nella shortlist dei 15 titoli in corsa per l’Oscar al Miglior Film Internazionale in rappresentanza del Giappone. Parafrasando ciò che dice la libraia al protagonista del film riguardo a Aya Kōda, autrice nipponica di cui il nostro compra un volume in edizione economica, utilizza le stesse parole comunemente usate nel linguaggio (qui delle immagini in movimento) ma in maniera diversa. E perciò stupefacente.
La storia è quella di Hirayama (uno straordinario Kōji Yakusho, Palma al Miglior Attore) e appare da subito sfrondata di ogni superfluo, tale e quale alla quotidianità del personaggio come ci viene presentata attraverso la lunga sequenza iniziale. Hirayama si sveglia all’alba, ripiega coperta e futon, ripone il libro letto la sera precedente, esegue le abluzioni giornaliere, barba, baffi, innaffia le piantine, indossa la tuta con la scritta The Tokyo Toilet – facile immaginare sia l’impresa dov’è impiegato, quindi si avvia al lavoro sul suo furgoncino blu. Non prima, però, di aver rivolto uno sguardo al cielo e sorriso alla giornata che si apre. Buona parte della quale Hirayama trascorre per l’appunto nei bagni pubblici del quartiere di Shibuya, che non si limita a pulire ma fa risplendere con scrupolo assoluto, quasi fosse non un’occupazione qualunque, tanto meno umile, ma una missione. Per il resto, un panino su una panchina durante la pausa, doccia e sauna in un sentō o un salto in qualche locale al termine del lavoro e nei fine settimana. L’esistenza di Hirayama sembra procedere lungo rigidi binari e tuttavia respira di bellezza e armonia. Anche di fronte agli imprevisti da gestire sul momento – il collega facilone che dopo averlo coinvolto nel suo caotico privato si licenzia su due piedi costringendolo a un doppio turno, la nipote che non vede da anni che scappata di casa si presenta a sorpresa da lui – nulla riesce a scalfire davvero la tranquillità interiore di quest’uomo. Che tira a lucido gabinetti ma ama leggere William Faulkner o Patricia Highsmith, che abita la modernità senza esserne ossessionato né dominato: Hirayama possiede un cellulare per lo stretto indispensabile, continua a scattare foto con la sua macchina analogica e ascolta musicassette nella sua vecchia autoradio. Un solitario e taciturno, eppure profondamente connesso con il cosmo e aperto alla relazione con l’altro – noto o sconosciuto che sia, come l’anonimo produttore del biglietto – invito alla partita a tris lasciato in una delle toilette.
Rilanciando un incarico offertogli dalla municipalità di Tokyo con l’intento di promuovere l’inaugurazione di nuovi bagni pubblici, in realtà veri e propri gioielli d’architettura e di design, Wenders, autore-mito di più di una generazione e di molti capolavori, ritorna al suo cinema migliore per compone un’opera commovente e poetica che fa della semplificazione, della sottrazione cifra e senso. Sceneggiatura (scritta insieme con il romanziere, produttore e direttore creativo Takuma Takasaki), regia, luci, scelta del formato 4:3: ciascun elemento vi si accorda. Ma il tutto, è chiaro, è più della somma delle sue parti. Così, già quando partono le note di The House of the Rising Sun di The Animals, per proseguire con quelle di Perfect Day di Lou Reed (da cui il titolo) e delle altre canzoni che fanno da colonna sonora alla vita di Hirayama, il miracolo si è compiuto e ha preso corpo un film capace di schiudere interrogativi da trattato filosofico: cos’è la felicità? Dove la si può trovare? Di cosa abbiamo davvero bisogno per sentirci appagati? Di congiungere simultaneamente ciò che specie per noi occidentali sta da sempre agli antipodi: il basso con l’alto, l’infimo col sublime, l’individualità con l’essere “al servizio” della collettività. Di trasformare la monotonia in opportunità e anche la più piccola variazione in epifania. Come nell’apparire di un komorebi, quel luccichio di ombre e luci creato dalle foglie degli alberi che ondeggiano al vento, e che esiste solo una volta, in quel momento. Perché in fondo, Hirayama docet, è quell’attimo che conta, il qui e ora, il singolo unico e irripetibile istante nel quale si concentra l’essenza stessa del vivere e in cui al nostro tempo umano è dato di attingere un possibile soffio di eternità.