«Guarda un po’ che personaggi: ma quanti scalognati!». Un Pirandello redivivo o un tragicomico epigono nostro contemporaneo ci provoca e ci interpella. Gli scalognati saremmo noi, spettatori in ascolto dal cuore aperto ai quali un portantino di un probabile manicomio postmoderno ha appena somministrato una pastiglietta calmante (una rinfrescante e gradita mentina).
Tira un’aria alquanto strana. Lo scrittore medita di “dimettersi da tutto” e una voce fuori campo ci informa che “le udienze sono sospese”. Nessun provino è previsto, i personaggi non servono più.
Siamo alle battute iniziali de Il canto dei giganti, lo spettacolo ideato, diretto e interpretato da Manuela Mandracchia e Fabio Cocifoglia, che ha debuttato in prima nazionale il 2 maggio scorso al Teatro India di Roma.
Ispirato a I giganti della montagna e a La favola del figlio cambiato, prende «in prestito la crisi dell’autore Luigi Pirandello per raccontare la nostra crisi di uomini e teatranti». Così si legge nel programma di sala e così si presenta il lavoro compiuto.
Dove ai fantasmi che chiedono vita si risponde sostanzialmente “ma cosa volete di più? Avete la fortuna di essere fantasmi e volete finire morti in una forma?”.
Non so se la suggestione è davvero quella giusta ma mi ricorda la pacca sulla spalla arrivata in pandemia quando si invitavano gli attori a esibirsi sulle piattaforme del web. Il teatro online, ma che bella invenzione. E poi a teatro chi ci va? Ci si chiede prima di entrare dritto dritto nel cuore incandescente di questa ricomposizione drammaturgica. I teatri sono chiusi o svenduti su Porta Portese mentre fuori si pensa a costruire autostrade e ponti sullo stretto, e quel che più conta è la merce, il mercato, le guerre di mercato. E benché “la bellezza non si discuta, il problema è il disprezzo della gente”.
Eppure, i fantasmi non si danno per vinti e continuano a mendicare un soffio di vita. Ma interessa a qualcuno, la vita dei fantasmi che chiedono attenzione? A chi interessa, per esempio, la vita di un docente che non sa farsi rispettare? E pensare che chissà “che novella mi potrebbe uscire fuori!”.
Lo scrittore e i suoi fantasmi, miseramente sottoposti alla volontà di chi ascolta, di chi legge, di chi permette loro di esistere. Di chi presta attenzione, di chi dedica tempo, di chi li supporta, in un modo o in un altro. E se questo terzo termine viene a mancare, ecco la crisi: degli artisti, dell’arte, della cultura.
Lo spettacolo è anche uno squarcio sulla crisi endemica di uomini e artisti che di Pirandello accolgono e interpretano lo spirito e la sofferenza, il gioco di specchi, la frantumazione dell’identità, l’inganno, la metateatralità, manifesta fin dall’inizio e declinata con sicurezza.
Poetica e anima pirandelliana sono come precipitate nel tessuto poroso di questo lavoro che testimonia di una solida e diversificata frequentazione dell’autore attraverso spettacoli – tanti, da scritturati e non – e letture che hanno agito in un tempo lungo. Si avverte insomma un’incubazione lenta che ha permesso di lasciar decantare, rielaborare, emanciparsi da una soggezione filologica pur mantenendo vivi gli umori, lungamente assorbiti e distillati.
Il colpo d’occhio arriva subito, con una scena satura di oggetti, di segni e di rinvii – una corona e un berretto a sonagli – nella quale anche lo scrittore di Fabio Cocifoglia, disteso su un letto, immobile, pare uguagliato a busti, manichini, bauli, specchi, lampade, maschere.
Prima di animarsi, personaggio egli stesso, in quella scatola a matrioska che si monta e si smonta in un continuo dentro e fuori. Sempre in equilibrio sulla soglia del baratro, tra la realtà e la finzione, tra l’attore e il personaggio, tra l’individuo e l’umana follia.
La corda pazza che qui arriva con l’entrata in scena di Manuela Mandracchia, un’onda d’urto che implora lo scrittore di concederle cinque minuti di udienza per raccontare di lei, madre disperata di una disperazione demoniaca, che pretende ascolto e reclama giustizia. Siamo alla fascinazione di un fantasma che sta per farsi personaggio. Lo scrittore rinunciatario che si voleva eclissare è sedotto, tentato, stretto nel giogo. “Racconta: non ti fermare”.
Di fronte alla disperazione di una madre, alla follia di una donna, al desiderio di un’attrice di dare voce a questa madre, a questa donna, a questo persistente fantasma della mente, di fronte al demone che titilla e respira, lo scrittore non può che cedere le armi e farsi medico, farsi cura, accudire. Le anime folli che indistintamente abitano il suo e il nostro tempo presente.
A restituire l’atmosfera liminale tra follia e quel qualcosa che follia non è o non è ancora, concorrono le musiche di Mario Crispi, Mario Rivera e Chiara Minaldi, in scena con gli attori, che rielaborano la tradizione musicale siciliana e del Mediterraneo con la musica elettronica.
Contestualmente vengono proiettate le fotografie di Letizia Battaglia e Shobha e i contributi video di Pippo Zimmardi nati da un laboratorio teatrale che si è svolto nella Real Casa dei Matti di Palermo.