«Dopo un grande dolore i nervi siedono come tombe, e ci si chiede se fu ieri o secoli fa». È un verso di Emily Dickinson, uno di quei composti chimici perfetti che, una volta scolpiti, sono in grado di riaffiorare come reperti dal mare ghiacciato. Il titolo della poesia è Dopo un grande dolore. Il dolore è un sentimento. Anche lo stupore, la gioia, sono sentimenti. In questo momento siedo alla mia scrivania e mi chiedo: fu ieri o secoli fa? Fa ancora caldo da queste parti. Fuori c’è il coprifuoco, in questi giorni scatta alle 18 ma siamo allenati da mesi di trincea e sappiamo tutti che le lancette dell’orologio potrebbero subire un ulteriore scossone. Si chiude sempre prima. Oggi anche il panettiere ha abbassato le serrande, senza avvisare nessuno. Certi negozi non hanno più riaperto. La mattina, siamo ancora autorizzati ad uscire da casa ma si incontra sempre meno gente per strada. Il fatto di indossare delle mascherine che ci coprono la bocca e il naso ci porta istintivamente ad usare di più gli occhi, ma anche quelli sono stati troppo a lungo mortificati e così quando si incrocia un altro simile tendiamo ad abbassarli, come se dovessimo vergognarci. “Avoid Eye Contact”, evitare il contatto degli occhi: una reminiscenza di tanto tempo fa, primo viaggio a Londra. Una scritta che stava in tutte le metropolitane. I poliziotti ti marcavano stretto per controllare se avevi davvero il coraggio di restituire lo sguardo di qualche balordo che cercava briga, per fare anche di te un criminale.
In questi giorni siamo tutti frastornati. Ci coglie il dubbio che magari ci siamo sbagliati e siamo usciti di casa durante le ore di coprifuoco, insomma c’è un po’ di paura, ma più vergogna che paura. Stamattina però non sono uscita di casa. Mi sono svegliata con questi versi della poetessa nel cuore. I nervi siedono come tombe e ci si chiede se fu ieri o secoli fa. Quando è successo? Di sicuro era autunno, perché pioveva. Ma originariamente la festa era nata per festeggiare la primavera. Infatti, portava il nome di Primavera dei Teatri. Il nome non l’ha cambiato. Però io ricordo che pioveva e che faceva anche un po’ freddo. La gente non era come quella che incontro, per sbaglio, la mattina, qui sotto casa. Le persone non evitavano lo sguardo. Anzi, si guardavano proprio dritto negli occhi. Ah, poi succedeva un altro fatto incredibile. Si mangiava tutti insieme, in una taverna, la Torre Infame. Di infame-infame non aveva niente, se non, forse, l’asperità del cameriere magro che parlava una lingua muta e assolata. Ricordo che eravamo sotto un monte. Il sogno (ah, adesso dici che è un sogno!) mi rimanda la parola Pollino, ma come fosse parte di un rebus che al risveglio bisogna sciogliere. Di questa primavera diventata autunno che aveva però in grembo già il bianco dell’inverno, trattengo alcune scene. Tutte si svolgono su un palcoscenico. Avevo letto da qualche parte che il teatro è strumento primario di conoscenza, forse perché ci rispecchiamo nell’attore che recita, lui è il nostro specchio. I teatri di questo sogno, che di certo si ambienta nel Sud dell’Italia (ho diversi motivi per crederlo: la luce sotto il monte e gli occhi neri e grandi delle donne), non sono teatri in senso classico. Uno di questi teatri è un castello, per esempio, un altro si apre una volta entrati in un cortile antico con gli archi e tutto quanto, un altro ancora si nasconde dentro un palazzo sontuoso che è illuminato a giorno da disegni di luci stupefacenti che un artista di nome Giancarlo Cauteruccio (l’ho detto che i nomi me li ricordo benissimo, alla fine li metterò insieme tutti in fila, per vedere che cosa ci devono dire veramente) proietta sui palazzi di questo posto antico. Ah, del posto pure mi ricordo il nome, Castrovillari. Dentro il castello agli spettatori vengono offerte delle coperte. Te le danno tutte sigillate e hai il permesso di mettertele addosso, sui piedi, sul ventre, anche sulla testa. Anche qui tutti portano le mascherine, ma è diverso, sembra quasi che riesci a vedere i sorrisi, anche se queste donne e questi uomini sono tutti imbacuccati per il freddo. Ad un certo punto piove, ma nessuno si alza, nessuno vuole scappare. È giunta anche qui notizia di un coprifuoco a venire, ma per il momento è primavera. Perché quando due uomini si parlano, non c’è dubbio che è primavera.
Sul palcoscenico, qualcuno ha montato una tenda da sfollati. Uno dei due personaggi ci vive da prima, dentro questo tenda. Scopriamo che si chiama Mario (lo interpreta un certo Saverio La Ruina), ed ha delle idee balorde sul ragazzo che la protezione civile gli mette dentro la stessa tenda. Lui è prevenuto perché l’altro, Saleh (Chadli Aloui), è d’origine tunisina. Per tutto il tempo, gli spettatori del castello si chiedono che cosa accadrà. Non c’è da stare troppo tranquilli. Che Saleh sia veramente un terrorista? E Mario che cosa nasconde? Capiamo ad un certo punto che lui è uno sfollato serio, cioè uno che anche prima del terremoto era stato picchiato dalla vita. Saleh, invece, non fa cose poi così strane, persino pregare su un tappetino non sembra una cosa pericolosa. Però a un certo punto spariscono dei soldi. La tensione aumenta. La cosa incredibile è che mi ricordo benissimo i volti dei due attori. Perché loro avevano un modo di guardarsi e di parlarsi che sembrava nascere proprio lì, non si sentivano né sicuri né sazi. Avevano anche un po’ paura. Veramente. Erano disposti a giocarsi tutto. Insomma, una di quelle cose che vengono spiate in segreto, una di quelle scene vere della vita quando c’era la vita. Nessuno, nel castello, osa fiatare, anche se ci piove addosso. Già, avevo dimenticato di dire che io sono sempre dalla parte di chi guarda il teatro, in mezzo a tutti gli altri. Nel castello, la scena cambia improvvisamente. A questo punto Mario e Saleh spariscono e arrivano una ragazza e tre uomini, fanno delle cose prodigiose.
Cose che è difficile spiegare. La ragazza è l’unica che recita, lo fa in lingua inglese, ma noi che siamo seduti con le coperte dentro il castello sappiamo che sono spagnoli. Insomma, questi ragazzi fanno delle dimostrazioni che sicuramente fanno parte del rebus. Mostrano dei volti e delle immagini sugli schermi, e al tempo stesso utilizzano dei minuscoli modellini di oggetti e persone per filmarli e proiettarli più grandi. A un certo punto, si vede il volto di Orson Welles che cerca di scusarsi con gli americani perché ha gettato il panico nel 1938, quando ha fatto credere con una diretta radiofonica che era scoppiata la guerra dei mondi, mentre in realtà stava solo leggendo un racconto di Wells. Di Orson Welles in realtà ce ne sono due, uno che si scusa (quello giovane), l’altro (quello più anziano) che non si scusa affatto, anzi se fosse per lui vedrebbe volentieri del sangue per strada, solo per provare fino a che punto si possono manipolare le menti. Poi questa storia si incrocia con un’altra storia, quella di un esploratore che voleva arrivare per primo sul Monte Everest, e di sua moglie che resta a casa e gli scrive delle magnifiche lettere. Lui non riuscirà a toccare Dio, lei invece sì. Come arriva a toccare Dio? Finendo di scrivere il libro che aveva cominciato a scrivere. Mi devo appuntare bene questa cosa, può essere utile in momenti di grande tempesta emotiva, quando ti senti di avere fallito su tutto.
Primavera dei Teatri, nella mia mente, si chiudeva con un vero e proprio prodigio. Era ormai notte, per strada non c’era più nessuno, perché tutti stavano dentro al teatro. Solo la Torre Infame restava aperta, per aspettare gli attori dopo lo spettacolo.
Sul palcoscenico apparivano tre figure, una donna (Ermanna Montanari), un uomo con il suo contrabbasso (Daniele Roccato), e un terzo uomo (Stefano Ricci) che, mentre gli altri due recitavano e suonavano, si metteva a disegnare col suo gessetto bianco figure fantastiche su grandi fogli di carta nera che una telecamera proiettava sul fondale. La donna parlava una lingua potentissima, fatta di suoni ancestrali, parole italiane e in dialetto romagnolo. Sembrava che dentro il suo corpo ci fossero gli animali, i boschi, le creature del cielo e della terra tutte riunite, pronte a far sentire quell’orchestra di suoni viventi che a noi umani, da tanto tempo ormai, appare aliena. Prima, la donna, ci appariva con i suoi capelli neri, in un secondo momento spariva per ritornare in scena con lunghi capelli bianchi. Mulholland Drive di David Lynch. Credo che la cosa si possa paragonare, anche per via del fatto che questa donna ci portava dentro un pozzo dalle pareti umide dove si possono sentire la voce dell’acacia e le grida dei boschi, le urla delle foreste che gli uomini hanno segato e dei fiumi che hanno avvelenato. Lei, la Madre, era finita dentro al pozzo, e fuori suo figlio, il bambino, cercava di aiutarla, ma la cosa non poteva finire bene perché la madre voleva trascinare suo figlio tra quelle pareti di terra umida e radici, ma soprattutto voleva fargli credere che era stato lui a buttarcela dentro. Questo spettacolo che ho visto con i miei occhi vivi è davvero uno spettacolo di magia. Infatti, ad un certo punto si narra di una fiaba antica, è il racconto degli specchi che tanto, tanto tempo fa mostravano non tanto il volto di chi si specchiava ma facevano nascere proprio un altro, un altro uomo, un animale, una figura dei boschi, e «quei due mondi così diversi vivevano in pace, gli specchi erano come dei portoni: si entrava, si usciva». In seguito a una guerra feroce, gli uomini e gli animali dello specchio furono sconfitti. Una volta ridotti a una condizione servile, furono costretti a imitare colui che si avvicinava in tutto, ma proprio in tutto, nei lineamenti, nei gesti. Insomma, invece di essere due, diventarono uno. È con questa immagine che ritorno alla realtà. Mi alzo dalla scrivania e guardo in direzione dello specchio. Che cosa vedo? Non ho il tempo di farmi questa domanda che dalla finestra arriva l’eco di una battaglia. Chi ha osato uscire di casa? Ormai è arrivata l’ora del crepuscolo, siamo in pieno coprifuoco. Sicuramente è qualcuno che non ha niente da perdere. Sono indecisa se avvicinarmi alla finestra o lasciar perdere, scivolando verso il sonno. Magari la nuova notte mi regala un altro sogno bello. Ma proprio non ce la faccio a resistere e mi sporgo. I poliziotti stanno prendendo a manganellate un cervo, una lepre e un bambino. Li riconosco. Vengono dal mondo degli specchi. Sono riusciti ad aprire di nuovo il portone e si sono liberati da soli.
Primavera dei Teatri. Nuovi linguaggi della scena contemporanea
Castrovillari, 8-14 ottobre 2020.
Gli spettacoli a cui si fa riferimento:
Mario e Saleh
scritto e diretto da Saverio La Ruina,
con Saverio La Ruina e Chadli Aloui.
The Mountain
di Agrupatión Señor Serrano
con Anna Pérez Moya, Àlex Serrano, Pau Palacios e David Muñiz.
Madre
testo di Marco Martinelli
di e con Ermanna Montanari, Stefano Ricci, Daniele Roccato.