Questo nuovo incontro con le Professioni del teatro è dedicato ad uno dei più quotati scenografi italiani: Alessandro Chiti.
Le scene, come è noto, assieme alle musiche e alle coreografie (nel caso in cui uno spettacolo preveda dei movimenti di danza) è uno degli elementi pressoché essenziali di uno spettacolo e questo sin dai tempi della tragedia greca. Nel Rinascimento, poi, quando il teatro era una prerogativa delle corti, anche grandi artisti come Raffaello e Leonardo si dedicarono all’arte delle macchine sceniche perché esse sarebbero servite a meravigliare gli spettatori e a mostrare la magnificenza e la prodigalità, alla stregua della fastosità dei palazzi e della statuaria, del principe di turno.
Anche il teatro popolare “povero”, quello degli “scavalca montagne”, degli attori girovaghi ottocenteschi che si spostavano con i carri di Tespi, non mancavano di avere nel loro bagaglio qualche immagine dipinta, su tela o su carta, che sarebbe stata utile per qualsiasi rappresentazione.
Alessandro, direi di incominciare con una tua rapida autopresentazione, ci può parlare di te, dei tuoi studi e di come ti sei trovato a dedicarti alla professione di scenografo?
Sin da bambino la mia curiosità verso il teatro, che vedevo saltuariamente in una piccola città di provincia, mi faceva fantasticare fino a sognare di poterlo trasformare in una professione. Tra i miei giochi principali c’era un teatrino di burattini, costruito proprio da me, come anche i personaggi che lo animavano. Naturalmente ho avuto grande supporto e incoraggiamento da parte dei miei, che hanno sempre assecondato volentieri questa mia passione.
L’inizio dell’attività di scenografo è avvenuta in maniera fortuita, con la conoscenza occasionale di alcune persone che condividevano le mie stesse passioni e, insieme, abbiamo deciso di creare una piccola compagnia di teatro: abbiamo iniziato così a fare spettacoli per gli studenti, non in classe, ma in piccoli teatri, dove la magia poteva compiersi anche con pochi mezzi. Erano cinema-teatri di provincia e, spesso, eravamo costretti a passare la notte in palcoscenico per montare le scene in tempo e per essere pronti per le matinée.
Ma eravamo giovani e la passione vinceva sempre sulla stanchezza e sul sonno perso.
Contemporaneamente studiavo architettura, ma in teatro, da autodidatta, sperimentavo materiali, spazi, piccole costruzioni.
Il lavoro dello scenografo, tranne non si parli di grosse produzioni ricche di frequenti cambi di ambienti e di effetti, come quelli usati nei musical, non viene sempre ben compreso dal pubblico; raramente ci si sofferma ad osservare con attenzione quanto impegno (e genialità) occorra per ingegnerizzare gli spazi che dovranno essere non solo aderenti alla narrazione, ma anche vissuti dagli attori. Cosa ti ha spinto ad intraprendere questa attività?
Una passione nasce, è come innamorarsi, sarà chimica, sarà altro…
Forse, col passare del tempo, sono arrivate le prime vere soddisfazioni e questo mi ha spinto sempre più a dedicarmi a questa attività. Infatti, dalle scuole, siamo passati poi al teatro “vero”.
La Compagnia, grazie ai consensi di un pubblico sempre crescente, ha iniziato ad espandersi dal contesto romano, fatto di piccoli teatri off, ai grandi teatri nazionali. Da lì ha inizio la mia carriera, e questo mi ha permesso di firmare scene di numerosi spettacoli importanti, classici e contemporanei. In quegli anni fu casuale e, decisamente fortunato, l’incontro con Lucio Ardenzi, che all’epoca era considerato il più ambìto produttore privato italiano, che riconobbe in me talento e capacità, tali da permettermi di diventare, per lunghi anni, il suo scenografo di fiducia.
In questi trenta anni di attività, ho avuto più volte occasione di lavorare con importanti e famosi registi e attori, tra cui Proietti, Salemme, Albertazzi, Gassman, Salvo, Calenda, Marini, Carniti, Colombi, Anfuso, Venturiello, collaborando, inoltre, con molte compagnie, Teatri Stabili e Festival (Spoleto, Siracusa, Versiliana, Borgio Verezzi, Teatro romano di Verona).
Ho al mio attivo l’ideazione di circa 400 scenografie.
L’eclettismo, che caratterizza la mia attività, associato a creatività ed inventiva, ed unito agli anni di esperienza, spazia tra testi moderni, classici, musical e lirica, richiedendo sempre spirito organizzativo e grande capacità di mediazione.
La riuscita di uno spettacolo, a mio parere, è sempre determinata dal clima che si instaura con tutta la compagnia; quando si lavora in maniera affiatata, quando c’è accordo tra regia, attori, tecnici, produzione e scenografia, si ottengono grandi risultati artistici.
Quali studi consiglieresti a chi vorrebbe intraprendere la tua attività? Oltre Architettura potresti suggerire qualche idea per un ciclo formativo?
Se un giovane mi chiedesse consigli, come spesso accade, paradossalmente cercherei di dissuaderlo anche se è un lavoro bellissimo. Forse, gli direi: «solo se hai una vera passione e una vera motivazione puoi affrontare questo lavoro perché incontrerai davvero molte difficoltà, che potranno essere superate solo se si possiede una grande determinazione e anche l’umiltà di accettare compromessi. Dopo studi di architettura o di accademia, il “mestiere” si impara soprattutto sul campo, ossia in teatro, facendo inizialmente l’assistente».
La Scenografia è un’arte. Un lavoro di creatività, inventiva, mediazione e capacità organizzativa; solo chi lo vive può conoscerne l’effettiva e incredibile complessità fatta di un eclettismo non facile da comprendere, vedendo soltanto la semplice messa in scena.
Dietro una scenografia non c’è mai solamente la rappresentazione immobile di un ambiente; e poiché è attraverso gli attori che la scena prende vita, si crea un vero e proprio connubio psicologico tra parola e immagine, tra recitazione e spazio rappresentato.
Spesso un oggetto, un movimento, un semplice dettaglio, possono suggerire un mondo immaginario e misterioso, e coinvolgere il pensiero e la fantasia dello spettatore, inducendolo a dare credibilità all’azione teatrale, e viaggiando con la mente e l’emozione fra quello che si vede e quello che si può immaginare.
Oggi, purtroppo, questa “professione” rischia di scomparire a causa delle difficoltà economiche del settore: una scena è ingombrante, realizzarla ha un costo, costa maneggiarla, trasportarla e gestirla, persino rottamarla!
Fra tutti gli spettacoli per i quali hai svolto la tua professione, quale è stato quello che ti ha dato maggiore soddisfazione o che rammenti con più piacere e perché?
Difficile rispondere a questa domanda, ogni spettacolo è un esame, un parto, e scegliere tra i figli è impossibile. Tra i tanti potrei citare La Presidentessa, con la Ferilli, e con la regia di Proietti, andata in scena al Teatro Brancaccio molti anni fa, in cui il connubio tra la scena e la regia di Proietti avevano contribuito a creare uno spettacolo perfetto. Ricordo ancora Maria Stuarda, con Elisabetta Pozzi e Mariangela D’Abbraccio, con la regia di Francesco Tavassi, in cui la scenografia si fondeva con la bravura delle attrici, creando momenti di forte emozione. Grande soddisfazione anche La Tempesta, con Giorgio Albertazzi, al Teatro romano di Verona, dove una grande idea scenica contribuiva a dare una magica e irresistibile attrazione a tutta l’opera.
Quale è stata la scenografia che hai trovato più complessa da progettare e realizzare e quella che, per assenza di indicazioni testuali, hai dovuto ideare di sana pianta?
Ogni scenografia è complessa, dal momento della creazione alla messa in scena. Il mio lavoro è condizionato da tante variabili, poiché dal progetto alla realizzazione tante cose possono cambiare e, in genere, la riuscita o meno può dipendere anche dal produttore, dal realizzatore, dal direttore tecnico, e dai tecnici che gestiranno la scenografia stessa.
I musical, solitamente, sono gli spettacoli più impegnativi, soprattutto quando sono novità e non “copie italiane” di allestimenti stranieri. Le riunioni preliminari sono lunghissime e faticose. Trovare un’intesa con le esigenze di tutti, dal regista al coreografo, dal sound designer al light designer, dagli effetti speciali al costumista, è un lavoro complesso che richiede uno spirito collaborativo e un processo di mediazione continuo. Tra gli spettacoli più impegnativi citerei Rapunzel, con Lorella Cuccarini.
I testi classici, rappresentati innumerevoli volte, in genere non hanno grandi indicazioni testuali riguardo alla scenografia. In ogni caso, il regista dà l’indicazione concettuale della strada da seguire e il mio compito è quello di dare una forma al concetto, che può essere realistico, immaginario, fantastico o inventato. Tra i tanti classici rammento volentieri La Locandiera, il Werther, il Giulio Cesare, La strada.
Com’è, in genere, il rapporto regista/scenografo? È noto che, come gli autori, ci sono dei registi molto “prescrittivi”, mentre altri lasciano molta libertà creativa. Con quali registi preferisci normalmente confrontarti?
Sono molti gli spettacoli “complicati”, dal punto di vista strettamente scenico, che ho dovuto affrontare. A volte, dopo aver letto il testo, mi vengono subito in mente tante idee e scegliere la strada giusta è difficile. Altre volte immagino la scena con la fantasia, e come potrebbe venire in una versione piuttosto che in un’altra. Poi, il confronto col regista chiarisce tutto e suggerisce la strada più adatta e coerente con le proprie idee.
È un lavoro quindi di interazione e di intesa, è un po’ come guardare lo stesso orizzonte ed entrare in sintonia, sulla stessa lunghezza d’onda. La cosa più stimolante è che ogni regista ha un proprio stile e un proprio modo di vedere il teatro e lo spettacolo. Lavorando con molti registi, ogni volta per me è un mutamento camaleontico di veste e un’esperienza diversa. È vero che una scenografia inizia a delinearsi dopo la lettura del testo, ma l’importante è capire cosa c’è nella testa del regista, conoscere il suo stile, sapere cosa, nelle sue mani, potrà essere più o meno valorizzato.
Ci racconti un episodio della tua carriera che ti ha lasciato piacevolmente sorpreso?
Rimango sempre sorpreso ogni volta che vedo la scenografia montata per la prima volta in teatro, ma tra gli episodi più piacevoli da ricordare è stata la vittoria, del tutto inattesa, dell’Oscar del Musical, nel 2015 (per le scene di Rapunzel n.d.r.).
Ero davvero molto emozionato e sono salito sul palco, per ricevere il premio, rimanendo quasi ammutolito per la commozione. Ma questo riconoscimento mi ha dato la misura di quello che ho sempre pensato, e cioè che vedere la scena muoversi, prendere vita e respirare attraverso il lavoro di tutta la compagnia, dalla produzione, ai tecnici, agli attori, è la dimostrazione che uno spettacolo è come un essere vivente, composto da tante cellule e tanti organi che non possono vivere se non interconnessi e questa è stata davvero una grande soddisfazione.