Il panorama italiano degli autori teatrali è pressoché infinito. C’è chi si è dedicato prevalentemente a testi impegnati e chi, invece ha preferito scrivere commedie o musical. C’è ancora chi si è occupato di attualità con la satira o col reportage e chi, ancora, ricerca la sperimentazione di nuove frontiere.
Proprio per questo affastellamento di differenze la mia scelta è caduta su Nicola Fano, professore universitario, giornalista, scrittore, critico e autore teatrale e televisivo.
L’aver intrapreso tutte queste attività, a mio giudizio, è un pregio di altissimo livello perché permette di avere uno sguardo più globale sul lavoro che si svolge e, questo, a tutto vantaggio della creazione artistica.
Ciao Nicola, come accennavo nella introduzione, le tue attività artistiche e professionali si “intersecano” tra mille rivoli di differenti competenze. Dirigi una rivista on line ma sei anche un profondo studioso del teatro, di rivista in particolare. Memorabile la serie televisiva dedicata al varietà Vieni avanti cretino, presentato da Serena Dandini. Per i nostri lettori potresti offrire una panoramica sulle tue infinite competenze e professionalità?
Intanto, grazie per l’attenzione. Non sono un autore teatrale in senso proprio, sono uno spettatore teatrale. Cosa completamente diversa: vado a teatro da più di quarantacinque anni (ne ho sessantadue) e ho visto alcune migliaia di spettacoli. Per passione, prima ancora che per mestiere. Ho svolto il ruolo di critico teatrale per il quotidiano l’Unità negli anni Ottanta del secolo scorso (per quel quotidiano ho diretto le pagine culturali nel decennio successivo); ho lavorato alla gestione del Teatro Ambra Jovinelli di Roma, e per sei anni sono stato nel consiglio di amministrazione del Teatro di Roma. Ho scritto più di una dozzina di libri sulla storia del teatro e da anni insegno Letteratura e Filosofia del Teatro all’Accademia Albertina di Belle Arti di Torino. Ho anche scritto i copioni di una ventina di spettacoli, è vero, ma il mio posto era ed è in platea. O, al massimo, dietro le quinte. Sono e resto uno spettatore: il teatro mi ha insegnato a guardare il mondo. E a cercare di capirlo.
Come detto, tra le molteplici esperienze e attività c’è quella di critico teatrale. Come ha influito questo sulla stesura dei tuoi testi sia per la scena sia per la televisione?
Per lavorare nel teatro bisogna conoscerlo. Possibilmente conoscerlo a fondo: più spettacoli si sono visti, più si capisce come si fa. In questo senso, e solo in questo senso, andare a teatro tutte le sere per (quasi) tutta la vita mi ha aiutato. D’altro canto, è vero che ho visto migliaia di spettacoli e che credo di sapere come si fa teatro, ma difficilmente riesco a guardare criticamente i miei spettacoli. Non sempre mi rendo conto se sono venuti bene o male…
Il principio di creazione, per te, parte da un fotogramma “core”, un momento chiave dello spettacolo da realizzare sul quale poi costruire tutta la narrazione o, viceversa, il tuo modo di concepire il racconto ha una forma di scrittura lineare, basandosi sul carattere dei personaggi per condurli su un percorso, che all’inizio della stesura drammaturgica non è magari ancora completamente “definito” nemmeno a te come autore?
Per lo più ho scritto testi su commissione. Poiché per un certo periodo mi sono occupato di comicità popolare, alcuni amici comici mi hanno chiesto dei copioni: in quel caso la “scintilla” non proveniva da me, dunque. Oppure ho lavorato in modo sistematico con alcuni registi: in questo caso, ho svolto un ruolo da dramaturg, alla tedesca, perfezionando le idee altrui. Per il mio piacere, poi, ho scritto dei piccoli testi che ho avuto anche la fortuna di vedere rappresentati o di mettere in scena io stesso. Ogni volta, tutto è scattato da un’idea critica. Ripeto ancora: non sono un autore, non ho quasi mai “inventato” storie. Piuttosto ho lavorato sulle storie degli altri: ho scritto testi riferiti a classici, parodie, spin off come si chiamano oggi. Una sorta di esercizio critico attraverso la scrittura scenica. E mi sono molto divertito a ricamare intorno a Shylock, a Falstaff, a Edipo, a Emma Bovary…
Quanto ha influito, nel tuo lavoro di scrittore, la tua formazione culturale di storico del teatro?
I miei sono testi di “secondo livello”, ossia chiaramente ispirati a testi di altri. In questo senso la mia formazione di storico del teatro è stata determinante, ovviamente.
L’attuale situazione, che il mondo del teatro sta subendo con particolare sofferenza, come influisce sulla tua attività creativa?
Il Covid ci ha reclusi tutti e influisce sull’attività creativa di chiunque, io credo. Così come influirà sul modo di vivere la paura e ogni forma di costrizione, di qui in avanti. Per quel che mi riguarda in modo specifico, ho approfittato di questo anno di digiuno teatrale scrivendo finalmente un manuale di storia del teatro per i miei allievi (Il peso di Anchise, pubblicato da Castelvecchi è uscito nel novembre scorso) e poi ho messo mano al lavoro ancora più desueto: ho lavorato di fantasia e ho cercato il teatro nell’arte, nell’arte del Rinascimento, soprattutto. Non potendo andare a teatro, ho rivisitato con la mente tutti i musei nei quali avevo passato tempo negli anni passati. Ne verrà fuori un nuovo libro che si intitolerà L’arte di guardare.
Secondo te, in relazione alla domanda precedente, qual è l’attuale ruolo di un autore di teatro oggi?
Un autore teatrale, oggi, in piena emergenza Covid, dovrebbe interrogarsi su che cosa è cambiato nella sensibilità degli individui. Per capire, poi, come queste modificazioni si rifletteranno sugli stili di vita futuri. Perché il teatro dovrà intercettare quegli stili di vita, operando una rottura decisiva con l’immediato passato. Gran parte della scena dei primi due decenni del Duemila si è concentrata sul concetto di “contemporaneità”. Ebbene, il Covid ha reso irrimediabilmente vecchio e inutile quel concetto di “contemporaneità”: occorre intravedere, subito, il futuro.
Cosa pensi sulla possibile riapertura dei teatri in rapporto alle molte restrizioni previste?
I teatranti sono stati i soli a chiedere a gran voce la riapertura dei teatri: è possibile che riaprano a breve. Credo che si debba esserne contenti, con tutti i rischi e i limiti del caso. Ma la questione è molto, molto più complessa. I teatri pubblici (Nazionali e Tric) sostanzialmente non hanno mai chiuso. Hanno continuato a ricevere notevolissime sovvenzioni dallo Stato senza dover sostenere praticamente alcuna spesa. Questi teatri (diciamo così, garantiti e diretti da soggetti scelti dalla politica non sempre in base al merito artistico propriamente detto) si sono trovati nella condizione di dover spendere soldi per forza: un teatro pubblico non può chiudere in attivo il proprio bilancio. E così sono nate strane rappresentazioni (spesso dal sapore puramente clientelare) che hanno occupato ignoti canali web o radiofonici. Per questi teatri “garantiti” sarà facilissimo riaprire; e magari anche richiudere in caso di improvvisi picchi di infezione. Per tutti gli altri, diciamo genericamente il “teatro privato”, il futuro è molto meno roseo: in quest’ambito il pessimismo è più che legittimo. Restano poi due questioni centrali. La stragrande maggioranza degli attori, dei tecnici, degli artisti, degli organizzatori, degli uffici stampa, insomma la stragrande maggioranza dei teatranti da un anno è senza lavoro e senza reddito: è un problema sociale enorme; non bastano le provvidenze date ai garantiti per risolverlo. La seconda questione è che in questi dodici mesi il teatro è rimasto in ombra: la classe dirigente del nostro Paese ha lamentato (variamente) la mancanza della possibilità di recarsi al ristorante, in discoteca, in palestra, sulle piste di sci… non ho sentito alcuna voce autorevole prendere posizione per rivendicare l’importanza sociale, etica e civica del teatro. Ovvio che le persone comuni abbiano riflettuto sul dolore che prende loro allo stomaco se non possono andare a sballare in discoteca e non sul pericolo dell’onda dell’idiozia e dell’inciviltà che scuote le loro teste se non vanno a teatro (o al cinema, o in un museo, o in una biblioteca…).
Ho visto che, in progressione, e in particolare dal 2019, la tua produzione per il teatro si è notevolmente arricchita. Come ti sei relazionato con questo lungo periodo di “silenzio” della scena? Quali sono i tuoi progetti in cantiere per il futuro?
Sto cercando di mettere in piedi una piccola produzione privata per allestire in estate un testo a due. Una vicenda ironica e beffarda su una truffa commerciale che ha a che fare con la storia e con i miti. Uno dei due protagonisti dice di essere un lontano pronipote di Polifemo…
Se qualche nostro lettore, dedito alla scrittura, ti chiedesse un suggerimento per farsi conoscere, iniziare a lavorare, nel mondo artistico come autore quali suggerimenti ti sentiresti di dare? Quale potrebbe essere la via migliore per far conoscere le proprie creazioni?
Il teatro è – sempre – lo specchio della società alla quale si rivolge: l’Italia è uno dei paesi occidentali dove la corruzione ha più peso nella convivenza civile, di conseguenza il teatro italiano è un luogo straordinariamente corrotto. Per questo è difficilissimo, per un giovane, poter esprimere liberamente le proprie qualità. E invece sappiamo tutti che per crescere bisogna mettersi alla prova e, eventualmente, sbagliare. Ai miei allievi che vogliono misurarsi con la professione teatrale consiglio sempre di cercare spazio al di fuori delle grandi istituzioni; di riunirsi in compagnie con i propri amici e sodali e di tentare strade produttive autonome e non convenzionali. Al limite cercando sponde nelle piccole amministrazioni comunali: ce ne sono ancora di lungimiranti. Credo che rimanere al di fuori dell’apparato burocratico (corrotto) del teatro sia l’unico modo per mantenere un briciolo di libertà. E, per un autore teatrale, la libertà creativa è tutto.