Avrebbe compiuto 99 anni il prossimo 3 giugno Emanuele Luzzati. Il caso ha voluto che pochi mesi prima della sua scomparsa, avvenuta il 26 gennaio 2007, mentre iniziavo a sperimentare la mia scrittura facendone in qualche modo un mestiere, ho avuto la grande fortuna di intervistarlo. Fu una telefonata che definire emozionante è dire poco. “Lele”, di fronte alle cui scenografie «si ha quasi sempre l’impressione di finire mani, piedi e pensieri dentro un sogno», rubando le parole al grande Giorgio Strehler, in quella lunga chiacchierata fu per me la voce di un nonno, nel senso più alto e ricco che questo termine può avere. Nonostante siano passati molti anni e nonostante poi l’intervista non sia mai stata pubblicata perché la rivista all’epoca chiuse e nessun altro giornale si mostrò interessato a pubblicarla, conservo un caro e nitido ricordo di quei preziosi momenti.
Ricordo una voce generosa nel racconto, entusiasta, libera. Ripercorremmo insieme la sua carriera, mi aprì la sua scatola della memoria, condivise con me i progetti futuri.
Punto di riferimento per la scenografia, il cinema d’animazione e l’illustrazione nel panorama italiano e internazionale il maestro Luzzati aveva la semplicità innata dei grandi artisti, la modestia di chi la cultura la fa e la influenza ma senza farne un vanto.
Costretto a lasciare l’Italia nel 1940 per le leggi razziali che colpiscono anche la sua famiglia di origini ebraiche, firmò la sua prima scenografia al rientro nel 1947. A questa seguì ben presto il teatro sperimentale con la fondazione del progetto La Borsa di Arlecchino (1957-62), il suo primo libro illustrato I paladini di Francia (1960), nel 1961 La Compagnia dei Quattro, il cui primo spettacolo è Il Rinoceronte di Eugène Ionesco per arrivare nel 1964 a dirigere con Giulio Gianini il corto animato La gazza ladra, nominato all’Oscar come il successivo Pulcinella (1973).
In 60 anni di carriera si contano oltre 500 scenografie per prosa, lirica e danza nei principali teatri italiani e internazionali, oltre a decine di libri per l’infanzia in gran parte ispirati alla Commedia dell’Arte e all’opera lirica.
Eppure in quel pomeriggio, il maestro Luzzati è stato solo “Lele”, anche quando mi raccontò, con voce divertita e sorridente, della sua amicizia con Gianni Rodari. Ecco dunque di seguito, in una sorta di “intervista impossibile”, la nostra chiacchierata che, spero, “Lele” avrebbe apprezzato.
Maestro Luzzati lei ha realizzato scenografie per prosa, lirica e danza nei principali teatri italiani e stranieri; ha illustrato molti libri, ha eseguito pannelli, sbalzi e arazzi sulle navi da crociera. Tra tutte queste forme d’arte, a quale si sente maggiormente legato e perché?
Spesso, nella vita ci si lega alle prime che si realizza: io, pertanto, sono legato a Lea Lebowitz, un dramma ispirato a una leggenda ebraica, scritto e diretto da Alessandro Fersen in cui ho realizzato una scena fatta solo di seggiole a formare una piramide, appunto la città di Praga. In basso, al gradino inferiore, c’erano quelle più povere, del popolino e del ghetto, e man mano che si saliva su in cima diventavano sempre più belle e ricche fino ad arrivare in vetta dove c’era il trono del re.
E quale, invece, la forma d’arte che più l’appassiona e la realizza?
Tutte, senza distinzioni. Molto dipende dal momento che vivo e da ciò che devo realizzare. Illustrare mi piace molto e, sinceramente, anche se so che non è una motivazione molto “intellettuale”, adesso è questa l’espressione artistica che prediligo, se non altro perché è meno faticosa per un uomo della mia età.
Nel 1995 ha ricevuto il secondo Premio Ubu per la migliore scenografia dell’anno per le scene del Pinocchio del Teatro della Tosse di Genova, teatro che lei stesso ha fondato nel 1975 insieme a Tonino Conte e Aldo Trionfo. Da dove nasce la volontà di fondare un proprio teatro?
Quella di avere un teatro è stata una vera e propria necessità. Nel 1975 avevo lavorato ne La Borsa di Arlecchino di Aldo Trionfo e avevo il bisogno di trovare uno spazio per esprimermi al meglio. Insieme a Tonino Conte, lo stesso Trionfo, Egisto Marcucci e Rita Cirio, cercavamo un luogo adatto alle nostre esigenze e abbiamo trovato questo baraccone proprio in “Salita della Tosse”. Da qui il teatro prende il nome.
Parlare della letteratura per ragazzi significa nominare Le fiabe scelte dei fratelli Grimm, Candide di Voltaire e Alice nel paese delle meraviglie di Carroll. Omettere le sue illustrazioni significherebbe togliere vita alle storie stesse. Da dove nasce la passione per questa forma d’arte e come si concilia con la scenografia?
Sono maturate insieme perché mi interessano entrambe, così come tutta l’arte applicata. Nella mia vita ho realizzato numerosi pannelli, ma anche tanta ceramica; ho lavorato molto con gli architetti sulle navi, ho fatto tanti disegni per stoffa… Sono incuriosito dall’arte applicata e, attenzione, non dall’arte pura. Non mi interessa fare un quadro e poi appenderlo, ma mi piace realizzare qualcosa che abbia un suo scopo pratico, una funzione.
Nel 1978 realizza, assieme a Gianini Il flauto magico, tratto dall’opera di W. A. Mozart ed essendo un mediometraggio di 52 minuti per soli 8 minuti non vince l’Oscar come miglior film di animazione (la durata prevista dal regolamento dell’Oscar è di 60 minuti). Rimpianti?
Nessuno! Non mi importa molto: avevamo avuto già 2 nomination, siamo entrati a far parte dell’Academy… Credo che di per sé questo sia già un ottimo risultato: in Italia pochi hanno raggiunto questo scopo! E poi, a dir la verità, per me la scenografia è più importante del cartone animato. Ecco un altro motivo per cui non nutro rimpianti. Chi mi chiede qual è il mio mestiere rispondo: sono uno scenografo.
Lei è un’icona nel panorama dell’arte, un riferimento per chiunque si avvicini a questo campo. Quali sono stati, invece, i suoi maestri?
Di sicuro Sergio Tofano con Bonaventura. Ricordo che ogni domenica andavo a comprare Il Corrierino per leggere le storie di Bonaventura e andavo anche a teatro dove faceva spettacoli per bambini. Ho vissuto col mito di Bonaventura fino a che, ormai adulto, ho avuto la possibilità di conoscerlo e di fare degli spettacoli con lui. Era un grande personaggio, un ottimo attore, il creatore dell’unica maschera italiana recente.
Nel panorama artistico attuale crede ci siano delle giovani promesse o, perlomeno, degli artisti che lei considera suoi diretti discendenti?
Non saprei. Ho avuto e ho tuttora degli allievi molto bravi. Ad esempio Antonella Abbatiello che a Bologna ha vinto numerosi premi per le illustrazioni, ma non so quanto possano essere considerati miei eredi. E poi ci sono molti ragazzi – forse neanche più tali, oramai – che fanno parte della scuola di scenografia del Teatro della Tosse che hanno ricevuto riconoscimenti importanti e lavorano molto anche a New York. Insomma ho seminato, il tempo di sicuro ci farà raccogliere i frutti…
Cosa ricorda di Gianni Rodari?
Ho lavorato molto bene con lui, gli devo molto proprio come insegnante. Ricordo una bellissima esperienza di tanti anni fa. A La Spezia abbiamo avuto a disposizione per un mese uno spazio all’interno di una scuola, una sorta di palestra. Qui con una classe di bambini dovevamo inventare uno spettacolo. Ricordo che Rodari stimolava molto questi bambini attraverso la descrizione dei caratteri delle maschere, come Arlecchino, Pulcinella, Pantalone. I piccoli a poco a poco hanno inventato una storia a tappe: prima la nascita, poi delle isole come quella delle parole che comprendeva parole belle e brutte, infine c’era l’isola di Zorro. E attraverso queste isole si arrivava all’adolescenza. In questo modo è nata La storia di tutte le storie. È stata un’esperienza davvero costruttiva perché Rodari è e resterà un grande e poi con i bambini si può davvero fare di tutto!
Avendo lavorato molto per i ragazzi grazie alle molteplici illustrazioni e scenografie, quanto ha influito la dimensione ludica? Crede che il gioco possa essere considerato il punto di partenza per un’efficace comunicazione con i ragazzi?
In genere ho fatto sempre dei libri abbastanza giocosi: mi divertivo a scrivere delle storielle che sono un po’ il ricordo di quelle che mio nonno mi raccontava quando ero bambino, sempre in rima. Però questa è solo una delle infinite strade che si possono percorrere quando si ha voglia di raccontare qualcosa. Esistono anche le storie tristi. Per quanto riguarda, invece, l’aspetto educativo, non mi sono mai posto il problema. Quando ho scritto delle storie ho perseguito un unico obiettivo: far divertire il lettore. Se poi i bambini ci trovano anche uno sfondo educativo ne sono contento, ma va bene anche se le ripetono macchinalmente, come fossero una canzone.
C’è una storia alla quale tiene particolarmente?
Sono molto legato a I paladini di Francia, il primo libro che ho fatto e dal quale è scaturito anche il cartone animato, sempre una mia creatura. Questa storia è stata anche ripubblicata con delle modifiche; in realtà lo stesso Brancaleone alle crociate si riferisce a I paladini, una storia che amo proprio perché c’è dentro l’essenza del teatro dei burattini: i pupi siciliani.
Maestro Luzzati, esiste un suo doppio illustrato?
Assolutamente no, le mie storie sono tutte un po’ balorde e non hanno personaggi. Forse però, a ben pensare, c’è un po’ di me in una frase di Alì Babà, che non ho inventato io ma che mi piace molto. Dice: «Alì Babà per passare il tempo allegramente, faceva di tutto per non far mai niente».
Nell’ultimo decennio la tecnologia ha invaso anche un settore particolare come quello artistico: è cambiato anche il suo modo di disegnare?
Il mio modo di disegnare è rimasto sempre lo stesso anche perché non so usare il computer. Certo ci sono dei trucchetti come ad esempio la trielina, ma di sicuro non si tratta di nuove tecnologie. Sono rimasto fedele al modo artigianale di disegnare, fondamentalmente perché il teatro è ancora un mondo artigianale.
Nel suo palcoscenico dominano i colori vivaci, lo spazio fisico diventa spazio dell’immaginazione e della fantasia e i personaggi prendono vita e si fondono con la natura che li circonda. Da dove nasce l’idea per realizzare una scenografia?
Da tante cose. Innanzitutto dal colloquio con il regista, a volte parlando con il produttore e persino dallo scambio di idee con gli stessi attori. È un lavoro abbastanza collettivo. Dopo il colloquio faccio le mie proposte, che vengono vagliate dal regista e, quando occorre, modificate. Tutto ciò fino a quando non si arriva sul palcoscenico, luogo in cui tutto può essere ancora cambiato e migliorato. In fondo recitare è un gioco, no? In tutte le lingue del mondo si dice jouer, giocare!
Giorgio Strehler ha detto: «L’arte di Luzzati è costituita dal vento, dai colori frantumati e da buffe illusioni». Cosa pensa del grande regista? Avrebbe voluto lavorare con lui?
Strehler è stato un grande del teatro e credo mi sarebbe piaciuto lavorare con lui. Dico forse perché in questo tipo di lavoro ci dev’essere dialogo. Non so quanto ce ne sarebbe potuto essere con lui.
E mentre lo confessa “Lele” sorride e mi sembra quasi di vedere il suo volto sornione, i suoi occhi vivaci appena socchiusi a immaginare ancora, in una “finita infinità”, nuovi mondi possibili.