Alla fine della scorsa estate incontrai Martina Gatto (autrice e attrice) e Dafne Rubini (regista), vincitrici dell’edizione 2018 del concorso per corti teatrali Autori nel cassetto, attori sul comò, organizzato dal Teatro Lo Spazio di Roma, diretto da Francesco Verdinelli ( https://www.liminateatri.it/?p=50 ). In quell’occasione mi ripromisi di assistere, appena fosse stato realizzato e programmato, allo spettacolo “definitivo” che per clausola concorsuale è necessario sviluppare dall’idea originale, perché ero curioso di vedere come l’autrice avrebbe integrato l’esilarante scenetta originale. Mi interessava scoprire se su di essa sarebbe stata costruita una sceneggiatura dal flusso organico, con un arricchimento del “significato”, o il tutto sarebbe rimasto asservito alla, seppure piacevole, mera logica della comicità. Ho atteso qualche mese e, finalmente, il 9 maggio scorso, sempre presso il Teatro Lo Spazio, ho potuto dare risposta a questo mio desiderio di sapere, intervenendo alla prima nazionale del one woman show – Cioccolato all’arancia – di e con Martina Gatto e con la regia e con la supervisione drammaturgica di Dafne Rubini.
Il tema “portante” dello spettacolo, proseguendo sulla falsariga del corto, è risultato essere l’indecisione. Ed è proprio basandosi sui risvolti emotivi di questa situazione “ansiogena” che l’autrice si è sbizzarrita a costruire le “tentennanti” disavventure di una donna in un giorno – quasi – qualunque.
Come è noto, l’indecisione o l’indeterminatezza non sono, per natura, degli atteggiamenti negativi anzi il vagliare le opportunità o i rischi è un comportamento “utile” al benessere quotidiano perché ci permette di sfruttare occasioni e di evitare pericoli. Una ragionevole analisi ha, però, un suo fisiologico tempo di “maturazione” (la scelta dell’acquisto di un appartamento richiede, ovviamente, più ponderazione di quella necessaria all’acquisto di un gelato) oltre il quale si rischia di sfociare in una forma “patologica” di insicurezza con un progressivo annichilimento della personalità. Quando il continuo interrogarsi sulle strade da percorrere si tramuta in una oscillazione tra opposti estremi, alla stregua di un pendolo, l’essere umano perde la sua capacità critica (per assurdo proprio per eccesso di “ricerca critica”) rimanendo alla mercé delle proprie paure. L’esito finale di tale condizione è l’incapacità ad intervenire in modo “fattivo” nel mondo “reale” con il risultato di rimanere, inevitabilmente, vittime del fato e delle altrui imposizioni.
Queste sono state, probabilmente, le considerazioni da cui è partita Marina Gatto per sviluppare il suo lavoro che ha scorto il lato ironico dell’argomento, fornendo un valore “deterministico” all’indeterminatezza. Il monologo, infatti, suggerisce che si può scegliere di non prendere decisioni perché anche questa strada porta alla risoluzione dei problemi o quasi… (interessante notare che il team organizzativo delle spettacolo, per propagandare l’idea, “a latere” ha lanciato un piccolo merchandising assieme all’hastag #indecisiperscelta).
La protagonista, dopo essere stata convocata dal suo medico curante, scopre di essere divenuta intollerante al lattosio. Un problema fisico complesso – invalidante – ma non mortale, che però, a seguito delle tante implicazioni nel quotidiano, fa precipitare la ragazza in un profondo stato confusionale.
Le poche certezze, assieme agli usuali punti di riferimento, sembrano cedere definitivamente sotto i colpi di questa notizia destinata a modificare vita e futuro. Il solo pensiero di dover rimodulare lo stile alimentare fa esplodere, nella mente della giovane, sopite contraddizioni caratteriali. È così obbligata a chiedersi quali siano i suoi reali desideri, compresi quelli più intimi e inconfessabili. La prima risposta che le risulta congeniale è, a dir poco, ovvia e, come tutti, afferma: «vorrei essere felice». Ma cos’è – realmente – la felicità? Quale è il percorso giusto per raggiungerla? Tutti desideriamo le medesime cose o la felicità è una condizione, un “sentire”, strettamente personale? Ad esempio, con gli uomini, potrebbe risultare più appagante godere di una sana attività sessuale, senza amore, per riservare maggiori energie al lavoro oppure, al contrario, può essere più soddisfacente inseguire l’amore nella consapevolezza che tale scelta porterà disagi all’attività professionale? Proseguendo nel ragionamento sarà realmente una scelta intelligente sacrificare i sentimenti per una attività ben remunerata ma non gratificante per, poi, scoprire quel: «vuoto negli occhi di chi non ama il proprio lavoro»?
Le domande si susseguono a ritmo frenetico e le risposte, purtroppo, non offrono una ragionevole soluzione contraddicendosi in continuazione. I pensieri, ovviamente, condurranno la protagonista a fornire una visione di se stessa decisamente paradossale: «sei sola perché lo hai scelto, perché l’ho scelto! Perché mi piace il gelato e mi piace il cioccolato all’arancia ma anche la menta, la cannella e il Puffo».
Il desiderare tutto, nell’incapacità di decidere, è il non ottenere nulla. L’unico atto di ribellione possibile verso l’indeterminatezza sembra quello di recarsi in gelateria nella consapevolezza, però, di dover pagare, poi, con del “male fisico” il breve attimo di piacere conquistato con la gioia del palato. Come l’ultimo desiderio di un condannato al patibolo, l’unica libertà che si ha è quella di poter scegliere quale prelibatezza assaporare ma, anche lì si finisce con lo “sprecare” l’occasione: dover optare per l’uno o per l’altro sapore.
Nel lavoro della Gatto la metafora delle aspettative della vita si intreccia con i gusti proposti nella vetrina del gelataio. Il lungo ed esilarante monologo, dalla musicalità di un galopp (da cui, come detto, prende spunto tutta la pièce), si trasforma in una sfiancante ed entusiasmante confessione nella quale si svelano i sogni e le incertezze della protagonista. È lo sfogo di chi non può che decidere di essere indeciso a causa del continuo susseguirsi, come nelle carte del Monopoli, di possibilità e di imprevisti. Nel tentativo di non soccombere, nella non confortevole posizione di dover attribuire una scala di priorità, si opta, sia pure inconsapevolmente, di lasciare al “fato” la conduzione del gioco.
Una scrittura dinamica e ben composta che, a dispetto della chiave recitativa umoristica, nasconde un’attenta analisi psicologica del personaggio e del periodo storico in cui viviamo. La messinscena, infatti, ci fa riflettere su come si è soltanto apparentemente artefici del proprio destino e che, l’essere determinati, non conduce, immancabilmente, ad un risultato utile e positivo. Di fatto, nel quotidiano, al di là delle apparenze, sono abbastanza pochi gli atti di libertà che ci sono consentiti perché, nella stragrande maggioranza dei casi, si è obbligati a percorrere una strada che già è stata delineata per noi da fattori esterni e contingenti pressoché immodificabili.