A teatro, non possiamo più andare come se fosse un gesto della quotidianità. Per una semplice ragione: perché la quotidianità non esiste più. Se non nel mondo dell’illusione. Nel reale, si depositano in ogni istante detriti di corpi, foreste dimezzate, ghiacciai prosciugati, temperature tropicali. Animali che non si erano più visti camminano in città. Gli altri vengono mangiati o addomesticati. Viviamo tutti sulla soglia. Non tanto in quanto “sopravvissuti” alla pandemia e al lockdown. Ma come spettatori di una guerra e di una apocalisse che potrebbe spegnere ogni forma di vita da un momento all’altro. Una guerra (umana) e una apocalisse (ambientale) che sono già in corso. Non vogliamo vederle perché non hanno ancora bussato alla nostra porta. Ora, chi fa teatro non può che partire da una domanda: come vivere? Come fare arte e come comunicarla fanno già parte di un pensiero di secondo grado. Abbiamo già sentito fare questi discorsi. E le parole sono state tanto più dolorose quanto più si era vicini alle zone di guerra. Quanto più si era stati testimoni dell’abisso.
È con questa consapevolezza che la compagnia Anagoor si avvicina alla poesia di Andrea Zanzotto, l’immenso poeta veneto di cui nel 2021 si sono celebrati i 100 anni dalla nascita. Così come Zanzotto aveva, con IX Ecloghe, fatto il suo «presuntuoso omaggio alla grande ombra di Virgilio», allo stesso modo Anagoor con la sua Ecloga XI orchestra un «presuntuoso omaggio alla grande ombra di Zanzotto».
Da un certo punto di vista, ci sarebbe bisogno di un manualetto esegetico per accedere a tutti i significati e ai passaggi concettuali di questa opera sinestetica. Ma, poiché lo spettatore ha diritto di avvicinarsi ad ogni fatto teatrale in totale purezza, ci limiteremo a raccontare la nostra esperienza. Per accedere alla stanza composta sul palcoscenico, in fondo, basterebbe aprire la porta della nostra stanza, quella in cui stiamo da soli a meditare, pensare, collegare, ricordare, sognare, dormire, pregare. Tra le due stanze si creerà sicuramente un cortocircuito. Che cosa bisogna invece sapere per poter vivere al meglio questa esperienza che oscilla tra meditazione estatica e contemplazione estetica? Il dipinto che viene riprodotto al fondo della scena è La Tempesta del Giorgione, ma privata delle figure umane che prendono poi vita sul palcoscenico, attraverso la metamorfosi dei due attori impegnati nello spettacolo: Leda Kreider e Marco Menegoni sono entrambi dotati di quella sottile abilità che ti aiuta a capire che cosa ha significato e ancora significa “il teatro della phoné”. Se è phoné, allora è a livello di “significante” che tendenzialmente bisogna disporsi, per accedere in una forma più inconscia possibile, e quindi intima, alle immagini suggerite. Il testo di Ecloga XI si presenta come flusso interiore a due voci, montando insieme versi di Andrea Zanzotto (da Filò, Luoghi e paesaggi, Fosfeni, La beltà, IX Ecloghe, Galateo in bosco, Idioma), brani di Simone Derai e Lisa Gasparotto (che firmano la drammaturgia), e il testo della lettera che il filosofo tedesco Günther Anders scrisse a Claude Eatherly, colui che sganciò la bomba su Hiroshima. Una lettera che andrebbe riletta mille volte. Un testo doloroso e fermo, che ci fa avvicinare al non dicibile (i «200.000 corpi lasciati dietro di te»). «Se questo è un uomo». scriveva Primo Levi. E ci chiediamo anche: di cosa è capace un uomo? Fino a dove si può spingere la crudeltà umana? Esiste un limite per il perdono? Un uomo che si ammala per dolore e pentimento può fronteggiare il crimine di cui si è macchiato? «Ma tu, a differenza degli altri, sei rimasto un essere umano, o forse sei diventato un nuovo uomo. Quindi anche tu, Eatherly, sei una vittima di Hiroshima». Le parole di Günther Anders, interpretate da Leda Kreider in lingua inglese (ascoltarlo in lingua italiana avrebbe tolto qualcosa all’opera?), azzerano il tempo. E in quello spazio vuoto, di infinita pena, i versi di Zanzotto scolpiscono l’aria con una precisione, e una dolcezza, che ci fa sperare. Ecco il punto: la speranza, nella tempesta. Ecloga XI ci fa fare un viaggio al fondo della luce e al fondo della notte. Ci mostra il silenzio della contemplazione di fronte al paesaggio.
Ma non ci lascia annichiliti, sperduti. Le magnifiche musiche di Mauro Martinuz (anche sound designer) ci fanno stare caldi, nella stanza. I versi di Zanzotto si sciolgono nella voce di Marco Menegoni come se si distendessero sulla riva di un fiume. Possiamo sentire la «debolissima, sovraconfidente pioggia», «il sordo movimento della luce che si fa effimero». Possiamo vedere «il regno del rovere e del faggio che ondeggia e si rifrange là dove piovvero folgori». Possiamo immergerci anche noi nell’ «oscuro», avvertendo «il sibilante no degli alberi, no di sentieri, no del torto tubero, no delle nocche, no di curve, di scivolii lesti d’erbe». Ma è nel “sì” di Eva che tutto si apre e si scioglie. Nella voce della donna che, a differenza di Adamo, più tormentato, si sente «adatta a questa epoca, proprio questa, con la pandemia, il crollo economico, la politica miserabile, la confusione, questa epoca dove la natura si allontana da noi, gli animali si estinguono, gli alberi vengono abbattuti, il pianeta si riscalda e il clima si scombina»”. Alla fine, Eva aspetta un figlio. Proprio in questa apocalisse nascerà un bambino. Siamo nel cuore della profezia di Zanzotto (fatta propria da Anagoor) che, dopo aver chiamato a sé tutto «l’oscuro», e proprio per questa sua capacità di «esalarsi nell’oscuro», intravede nel buio un bagliore d’«umiltà» e «pietà». «Sei ancora un essere umano, o forse sei un nuovo uomo». Ricordiamo cosa scrisse Günther Anders a Eatherly? Proprio perché aveva mostrato pietà, perché si era ammalato. Nei resti dell’umano, nei materiali di scarto non completamente setacciati e assimilati, sopravvissuti all’esplosione, si annida quindi la speranza. Il no tiene in grembo il sì. L’oscuro partorisce il figlio. In questo battito d’aria purissima, riappare ai nostri sensi il radioso monologo finale dell’Ulisse di Joyce, quando Molly Bloom dice sì e ancora sì alla vita: «…sì quando mi misi la rosa nei capelli /come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco /e io pensavo beh lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e dissi sì voglio sì».
ECLOGA XI
un omaggio presuntuoso alla grande anima di Andrea Zanzotto
di Anagoor
drammaturgia Simone Derai, Lisa Gasparotto
con Leda Kreider e Marco Menegoni
regia, scene e luci Simone Derai
musiche e sound designer Mauro Martinuz
voce del Recitativo veneziano Luca Altavilla
(la scena ospita un’evocazione dell’opera Wood #12 A Z per gentile concessione di Francesco De Grandi. Realizzazioni di Luisa Fabris).
Produzione Anagoor 2022. In coproduzione con Centrale Fies, Fondazione Teatro Donizetti Bergamo, ERT / Teatro Nazionale, TPE – Teatro Piemonte Europa / Festival delle Colline Torinesi, OperaEstate Festival Veneto.
VIE Festival, Teatro Ermanno Fabbri, Vignola (MO), 13 e 14 ottobre 2022.
Prossima data:
Teatro Astra, Vicenza, 3 dicembre 2022.