«Come entrare in un’opera come quella di Kafka? Un’opera che è un rizoma, una tana?». Si apre così il testo Kafka. Per una letteratura minore, scritto a quattro mani da Gilles Deleuze e Félix Guattari. È vero, la scrittura kafkiana è labirintica proprio come l’insieme di gallerie e cunicoli scavati dalla talpa nel racconto intitolato, appunto, La tana. I due autori danno una lettura fortemente radicale dell’opera dello scrittore: nei personaggi che costruisce c’è sempre la ricerca di una via di fuga. Massima espressione di questo desiderio è la trasformazione che ne La metamorfosi subisce Gregor Samsa. È nel suo divenir animale che i due autori individuano un’attuazione di quel bisogno. Ma da cosa si fugge esattamente? Dalla famiglia, dal padre soprattutto. Ci si sottrae alla morsa edipica solo divenendo altro, anche se, come Deleuze e Guattari sottolineano, la deterritorializzazione portata avanti da Gregor non si compie fino in fondo, poiché si lascia riedipizzare dal padre nel momento in cui viene da lui colpito con una mela, che gli si conficca sul dorso.
La prima volta che ho visto La metamorfosi a teatro ero al liceo, durante il laboratorio dell’attore e regista Gabriele Linari, che un anno scelse di farci portare in scena un’antologia di testi di Kafka, tra cui Lettera al padre. Ricordo perfettamente l’emozione che provai, nascosta dietro le quinte, nel vedere lo scarafaggio prendere vita sul palco. Gabriele scelse di far interpretare il ruolo di Gregor a due ragazze che, sedute a terra, tenevano nelle mani due ombrelli neri aperti e li agitavano scattosamente, simulando così i movimenti dell’insetto. Trovai quella scelta geniale: un solo elemento capace di costruire un mondo e di ricreare la paura e lo spavento di Gregor nel trovarsi in quel corpo.
Il 4 maggio sono tornata a teatro dopo sette mesi. Ho raggiunto il Teatro Argentina quando aveva appena smesso di piovere e anche quello mi è sembrato un buon segno. Disteso sul letto, al centro del palco, è comparso come nella stanza di un ospedale quello che aveva tutta l’aria di essere un infermo e che ho scoperto un attimo dopo essere allo stesso tempo narratore e attore. Ecco uno degli aspetti sicuramente più riusciti dell’adattamento di Giorgio Barberio Corsetti: affidare ai personaggi la parola, l’azione e anche il racconto.
Kafka mostra bene come esista solo un incubo più grande di quello di essere trasformati in un insetto: quello di avere, nel momento in cui questo accade, i propri genitori alle calcagne, impazienti che tu apra la porta. Ad accrescere ancora di più questa minaccia dall’esterno è, nel racconto di Kafka e in particolare in questa rappresentazione, la presenza del procuratore. Il suo arrivo, del tutto inatteso, contribuisce ancora di più a restringere lo spazio della stanza. Il mondo di fuori, che pretende di entrare nell’unico luogo intimo che resta a Gregor, produce nello spazio un vero e proprio schiacciamento.
Anche l’allestimento va in questa direzione: i due ambienti, la camera di Gregor e il salone ruotano schizofrenicamente fino a rendere indefinibile la loro separazione. La porta, unica soglia tra i due mondi, quello umano e animale, è quasi trasparente per insistere sull’idea che la famiglia, inorridita dall’aspetto di Gregor, non possa far altro che spiarne i movimenti da fuori. La sorella all’inizio è l’unica ad addentrarsi nella tana e a portare da mangiare al fratello e a nutrirlo esattamente come si fa con un cane. Il gesto di abbassarsi a terra per ingerire gli avanzi dalla ciotola è forse il più adatto a rappresentare la sua bestialità e il disprezzo che la famiglia prova nei suoi confronti. Ma alla fine scopriamo che ad essere molto più bestiale dell’aspetto di Gregor è lo sguardo dei genitori e della sorella, pronti a sbarazzarsi di lui alla prima occasione. La scelta registica di rendere la sua trasformazione solo attraverso i movimenti incerti, l’essere storpio e gobbo, senza aggiungere ulteriori elementi che rimandino alla sua animalità, è coerente con quella drammaturgica di rimanere fedeli al testo, conservarne l’essenzialità e la violenza. Sì, perché Kafka lo esprime chiaramente: non c’è niente di più violento che essere respinti da chi ti ha generato.
La metamorfosi di Franz Kafka
adattamento e regia Giorgio Barberio Corsetti
con Michelangelo Dalisi, Roberto Rustioni, Sara Putignano, Anna Chiara Colombo, Giovanni Prosperi, Giulia Trippetta, Dario Caccuri.
Teatro Argentina, Roma, dal 3 a 9 maggio 2021.