Come una scultura dell’americano Robert Morris, i lavori presentati da Giuseppe Vincent Giampino e Greta Francolini alla sedicesima edizione del festival Teatri di Vetro sembrano disegnare strutture primarie fortemente concettuali, benché incastonate dentro un lessico minimale. Architetture apparentemente volumetriche in una disposizione spaziale che avvertiamo casuale, e non lo è per nulla, con il corpo lasciato “cadere” in una sorta di duttilità antiform, cedevole parrebbe, seppure marcatamente presente, organicamente espresso nella sua natura propria, di didascalica verità. Entrambi sono autori di un pezzo coreografico mentre insieme ne innescano un terzo che sulla distanza riecheggia come un diaframma fra i due, una “soglia”, una condizione ormai non di superficie ma non ancora un travaso nel corpo parlante. Uno stare tra: processo e forma, riflesso intimo ed esposizione figurale, racconto e metafisica. Alla stessa stregua di altri performer e coreografi di una generazione prossimale, lo stare tra è probabilmente quell’incipit gestuale e filosofico più vicino all’auto-definirsi della danza oggi, in quanto esperienza iconoclasta e debordante di fratture visive al tempo stesso. Il lavoro comune titolato Vacantes è il punto di incontro tra i due emisferi a loro modo coabitati da fantasmi, ma non dagli stessi fantasmi, qualcosa di ulteriore alla solitudine e al dolore in un quadro orchestrato da passaggi quasi sospesi, piccoli spostamenti, materie (quei corpi) che sondano lo spazio nell’immaterialità dei significati, senza governo né imperio, uno spazio lasciato attraversare nemmeno dalle intenzioni, soltanto da una restituzione con riserva di uno approssimarsi allo spossessamento dell’Io.
Questa cornice da «meccanismo aperto» porta con sé una dilatazione temporale e una sospensione mnemonica sufficientemente immote, lì a chiederci qual è il punto della danza e di quali “parole” si serve: a partire da un’idea di ricostruzione oppure di nuovo una frammentazione, decomposizione della memoria? Ciò che Roland Barthes intendeva col punctum, il dato di una sfumatura di definizione, qualcosa che ha a che fare con un particolare improvviso, casuale e privato, si fa carico della memoria ma ne sospende il giudizio su di essa. Tutti e tre i lavori osservati hanno una ben definita geometria scenica con segni ricorrenti, forse involontari, così anche Attwn – And Then There Were None a firma di Francolini marca con precise traiettorie visive oltremodo ricorrenti e risonanti, dove il corpo si lascia ammutolire in quel diaframma tra surplus organico e nettezza degli oggetti, e oggetto tra gli oggetti il corpo della Francolini si domanda, chiede di sé tra sublimazione crepuscolare (riprendendo una volontà nella definizione di «danza crepuscolare» della stessa autrice) ed eco di un video riflettente, un dispositivo poetico senza annoverarne l’essenza.
È un lavoro caustico nel suo essere privo di ammennicoli retorici, ma sia nelle intenzioni che nell’esito scenico ha quel gradiente d’opera così dichiarato da renderlo commovente. Il terzo capitolo di questo non-trittico vede Giampino autore e performer qui a raccontarsi descrivendosi con un fraseggio (anche in questo caso) poetico, e per certi versi inconsueto per lui: «Un solo è un gioco di ombre, spie e serrature» dichiara, rivelando di fatto il farsi metafora, corpo trapassato, feritoia, quanto Carmelo Bene presenza ch’è altro da sé nel lirismo del suo farsi opera.
Umlaut. Au Manège definisce ancora uno spazio che si compone e decompone in diretta, come per il precedente ff_fortissimo parte del pavimento è “mosso” decomprimendo la percezione, alcuni passaggi sono misurati nel sondare lo spazio, un microfono con asta quale vettore dichiarante, come un dipinto barocco la visione si acuisce di aperture prospettiche, grondante tagli e sovrimpressioni d’ombre, agisce col corpo come in un catartico ribaltamento da se stesso, cadendo capitolando e sbattendosi con grave e perturbante violenza. E il finale, come per i tre lavori che inscenano per lo spazio-ring dell’azione un dis-ordine voluto, uno sfasamento anche del tempo, un imperfetto ch’è nella sospensione, un posticipo, un rimandare ad altre cornici fuori dalla cornice.
La questione del punto, nel senso dato da Barthes, crediamo sia il rovello intorno al quale diversi autori (si diceva) tornano ciclicamente e di questa “insistenza” avvertiamo un felice spostamento tra immagine e retaggio retinico nel lavoro [parentesi] di Daria Greco e Jacopo Dell’Abate. Il dialogo tra i due è fertile per la loro capacità di disinnescare l’approccio apparentemente lasciato all’improvvisazione, mentre invece l’uso dello spazio di creazione istantanea si tramuta minuto dopo minuto in un cortocircuito di materie senzienti, l’una dislocando nel corpo, col corpo, un gesto rammemorato dalle sue esperienze di performer, l’altro indagando con scatti fotografici riprodotti su schermo in diretta, quasi a levigarne il fiato, la trasparenza, la sua parte fantasmatica. Ne esce una percussione di forme a volte persino traslate, una metonimia figurale che lascia dietro di sé (o davanti a sé) una scia, un residuo attivo, larvale. Potrebbe durare cinque minuti o quattro ore, l’incanto di una sinestesia tra il movimento e il suo richiamo in immagine istantanea che si lascia catturare nelle tracce lasciate dalla performer e dal fotografo, un portato d’archiviazione evanescente.
Teatri di Vetro, Festival delle arti sceniche contemporanee, XVI Edizione, direzione artistica Roberta Nicolai, Teatro India, Roma. Per le opere osservate dall’autore in questo articolo, si fa riferimento alle date 14, 15 e 16 dicembre 2022.