Questo “Faust” non si ha da fare di Alessandra Bernocco

Foto di Manuela Giusto

Questo Faust ebbro come un Werther me lo sono proprio goduta. È la sensazione che mi hanno lasciato le quasi due ore di spettacolo in cui una solidissima compagnia di under trenta o appena un po’ più up, ha proposto in modo liberissimo la propria lettura di quella che è considerata una delle maggiori opere della letteratura europea. Il Faust di Goethe, milleduecento pagine per dodicimila versi scritti e riscritti nell’arco di sessant’anni.
Lo fece Giorgio Strehler intestandosi il ruolo, lo fece Giorgio Albertazzi che fu invece Mefistofele accanto al più imponente Faust di Massimo Venturiello. Messe in scena memorabili ma sintonizzate su un pubblico che sapeva di andare ad assistere alla storia di quel tale che fece un patto col diavolo in cambio di un pugno di grazie terrene a tempo determinato. Con tutti gli annessi e connessi che si aspetta chi almeno un po’ conosce l’intrigo: tentazioni, seduzione, filtri magici e scongiuri, filastrocche e stratagemmi, menzogne, travestimenti, condanne, pentimenti, suicidi interdetti da un suono di campane, tragedie d’amore con una povera donna circuita e disonorata (tale Margherita) ma anche con la femmina più disponibile e gettonata della mitologia di tutti i tempi (tale Elena di Troia). In un andirivieni di tempi e di luoghi su cui non è il caso di indugiare.
Nel Faust ci sono sessant’anni di vita e la vita è inevitabile che si depositi sul fondo, torni a galla, si stratifichi lasciando solchi e tracce da percorrere o magari ostacoli da superare. È inevitabile che sterzi, si guardi indietro, si soffermi su uno squarcio di tempo o ne resti suo malgrado imbrigliata dando senso e peso a un dettaglio che per altri non conta nulla.
La vita di Goethe ne ha viste di tutte. E a tutte ha dato seguito. Dalla prometeica protesta contro il razionalismo illuminista dell’età giovanile, vissuta come fascinosa dimensione di fruitio sui, al classicismo respirato e fatto proprio con il Viaggio in Italia, dalla nostalgia di infinito istituzionalizzata dal pensiero romantico alla consapevole acquisizione di una religione del limite, come tratto congenito all’essere umano. Fino al motivo più propriamente faustiano che dei precedenti è sintomo e approdo: in Faust, come in Werther e come nell’Edoardo de Le affinità elettive, si esprime la malattia, la sfera demoniaca, l’incontenibile ansia di sovrumanità e universalità. Senza ordine, o almeno senza un ordine apparente. Perché la domanda, in effetti, è proprio questa: di che parla il Faust?

Foto di Manuela Giusto

È la domanda che un consesso di conferenzieri rivolge all’uditorio, imbeccandolo: parla di Elena, di feudalesimo, di Rivoluzione francese, di capitalismo, di streghe, di chiesa cattolica, di coste, di gatti mammoni? Di che parla? Di tutto questo e altro ancora perché il Faust “è tutto un miscuglio e se lo leggi al contrario è la stessa cosa”.
Siamo a pochi minuti dall’inizio dello spettacolo diretto da Leonardo Manzan, anche autore del testo “tratto da” insieme a Rocco Placidi, che ha debuttato in prima assoluta il 10 dicembre scorso a Roma, Teatro Vascello, dove resterà in scena fino al 22 dello stesso mese.
Palcoscenico allestito come una sala conferenze, sei postazioni microfonate con tutti i confort, sedie, acqua, bicchieri, un tipo che aspetta (Alessandro Bay Rossi), senza far nulla, con l’aria annoiata di chi deve portare pazienza perché è il solo arrivato puntuale.
Ma a farsi attendere e corteggiare, più che gli altri conferenzieri, sarà una commissione di esame, sorta di CdA di un fantomatico teatro stabile, che dovrà valutare la sua performance per eventualmente inserirlo nella futura programmazione. Il tipo di prima in realtà è un teatrante che ha in mente di fare uno spettacolo sul Faust e si trova lì, insieme al suo Mefistofele (nel ruolo Paola Giannini, deliziosamente combinata come una soubrette del varietà), per un’audizione canora (divertentissima) finita con un immancabile “Le faremo sapere”.
Ecco, questi sono brevi spaccati dello spettacolo che si dispiega dentro e attraverso una (pretestuosa?) conferenza sul Faust, che è anche l’abbrivio dello spettacolo stesso.

Foto di Manuela Giusto

«Il nostro Faust» – si legge nelle note di regia – «ha un problema concreto e insormontabile: vuole mettere in scena il Faust di Goethe. Vuole rappresentare sé stesso. Ma questo non è più possibile: sa troppo di sé, è troppo intelligente, non crede più al diavolo».
È un Faust che ridonda nei suoi interlocutori e attraverso di loro si osserva patetico, perché ormai è rassegnato, disincantato, incapace di ridere, come recita la canzoncina che certamente non gli varrà l’ammissione.
Riavvolgere il nastro non è più possibile. Non ha più senso sbrogliarne le maglie e dare un probabile ordine al caos. Però si può assumere il caos come paradigma possibile, e dentro quel caos, liberare il proprio furibondo malessere e magari provare a riordinare le idee.
Le loro, le nostre e quelle di chi è seduto in platea.
Lasciata da parte la storia, resta lo spirito, il respiro, l’ebbrezza che deve trovare una forma. Proprio come nel Faust, anche qui è precipitato di più (e di meno) di quanto non avremmo previsto.
C’è una scatola-contenitore che ha preso la forma di conferenza, e dentro questo contenitore si dibatte di tutto: di arte e presunzione di fare arte, di dittatura del sapere, di suicidio e di stagioni teatrali, di depressione e suggerimenti per uscirne (il solito “rivolgiti a uno bravo”), di sesso ipotetico e caducità dei miti, di privilegi da sotterrare e di carnefici in paradiso. Tra l’altro. Se ne dibatte a partire dal prologo sul teatro che Goethe pone a incipit dell’opera – bisogna assecondare i gusti del pubblico o l’ispirazione poetica? – e se ne dibatte a forza di iperboli e di paradossi, di canzoni e pantomime (detto per inciso ma Margherita di Riccardo Cocciante, cantata da un trasognato Alessandro Bandini, meritava rewind e play più di una volta), di balletti, sketch, jingle, versi di animali e gare di rutti, prese per i fondelli e provocazioni.
Ci è dato sfangarla a suon di marchette o bisogna pagare lo scotto di essere duri e puri rischiando grosso di finire in miseria?
La vecchia e sempre viva questione che Goethe ci serve su un piatto d’argento, oggi suona come alternativa tra la logica del marketing e la virtuosa e faticosa autonomia dell’arte, il catalogo, mi pare si dica in editoria. Tra liberismo e no, tra capitalismo e no. Questione che qui si gonfia e butta giù i paletti per dare sfogo a tutto quel che non torna, a loro che conferiscono e a noi che assistiamo. Le stagioni teatrali battute a carte su un tavolo da gioco (“Barbareschi: bancarotta; Lavia, stai fermo un giro”); le conquiste e l’alibi della civilizzazione (“c’era un maschio bianco che dovunque andasse, distruggeva”), il patriarcato, la hybris dell’artista che crede di migliorare il mondo, la sua maledizione.
Il tutto gestito con il metodo e il rigore di chi sa fare il proprio mestiere e la veemenza da “assalto e impeto” di chi ci avverte che “la rivoluzione non conosce limiti”.
Come tanti Werther che si rivoltano contro la borghesia filistea e cialtrona, qui si spinge il pedale contro chi ti vorrebbe zittire e si urla più forte. “Il vostro sbigottimento è il segno della nostra forza”.
Credo che per un artista di ogni età, incavolato il giusto per le svariate ragioni che ben conosciamo e che i nostri sei ci han ravvivato, non ci sia niente di più irritante che venire liquidati come pseudoromantici, postadolescenziali, generazionali.
Una specie di poi ti passa, poi maturi, poi capisci. E perché mai? Dipende sempre da come gira là fuori.
Questi sei conferenzieri performer che rispondono ai nomi di Chiara Ferrara, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti, oltre ai già citati Bay Rossi, Giannini e Bandini, ce lo raccontano in modo travolgente,  formando insieme una macchina a orologeria, certamente a lungo rodata, perché si vede chiaro il lavoro di lima, la sincronia perfetta di gesti simbolici, scanditi con tempi e ritmi codificati, a effetto domino o in simultanea, mentre nemmeno ci accorgiamo che dello spettacolo, quello per cui siamo stati convocati, il Faust di Goethe, appunto, non c’è quasi traccia.
Questo Faust non si ha da fare. Questa epoca non è più la sua. Il prologo è finito. Faust deve essere dimenticato. Sipario. Anzi no. Il sipario non si era mai alzato.

Foto di Manuela Giusto

Faust

tratto da Faust I e II di Johann Wolfgang von Goethe
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti
regia Leonardo Manzan
scene Giuseppe Stellato
costumi Rossana Gea Cavallo
light design Marco D’Amelio
music and sound Franco Visioli
fonico Filippo Lilli
luci direzione tecnica e datore luci David Ghollasi
macchinista Giuseppe Russo
assistente scenografo Caterina Rossi
aiuto regia Virginia Sisti
collaborazione organizzativa Elisa Pavolini
produzione La Fabbrica dell’Attore – Teatro Vascello, Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione con Teatro della Toscana – Teatro Nazionale
si ringrazia per la collaborazione l’associazione Cadmo.

Teatro Vascello, Roma, fino al 22 dicembre 2024.

Prossime date:
LAC, Lugano (CH), 11 febbraio 2025
Teatro Astra, Torino, dal 25 febbraio al 2 marzo 2025.