Pochi giorni prima del debutto di questo atteso Re Lear di Gabriele Lavia chiedo a Federica Di Martino, Goneril, se ci sarebbero state anche qui le di lui belle ossessioni, gli oggetti feticcio che il suo pubblico sa di trovare, e forse ci spera, quel corredo di vita che pulsa in vecchie soffitte e che reclama di essere portata alla luce.
Ci sono. Assicura che ci sono. E infatti ci sono. I bauli semiaperti dai quali può uscire di tutto, gli orologi rotti che non segnano il tempo ma indicano, casomai, che il tempo si è interrotto laddove vorresti tornare e ricominciare da capo, le seggioline di quando eri bambino, il teatrino. E figuriamoci se il teatrino mancava.
Sta a un lato del palcoscenico, piccolo piccolo, ma salta subito agli occhi. Il suo sipario è aperto e Cordelia sta muovendone i pezzi.
Intanto Goneril e Regan, le sue sorelle maggiori, si adoperano da par loro nelle promesse di amore e fedeltà che ben conosciamo, di fronte al Re credulone che non riconosce l’imbroglio e non conosce ancora l’ingratitudine.
Una tragedia dell’ingratitudine. Due perfide figlie profittatrici che non vedono l’ora di farlo fuori mandandolo ai matti: nonostante il matto e il fedele Kent che se le inventa tutte per non lasciarlo da solo.
L’ingratitudine prima ancora della vecchiaia. Motivo per cui molti attori ne hanno vestito i panni nel fiore degli anni e della carriera, da Franco Branciaroli a Massimo De Francovich o, recentemente, Graziano Piazza in una bella versione nel compianto Globe Theatre. E prima ancora Glauco Mauri, poco più che cinquantenne, e Giorgio Albertazzi, Roberto Herlitzka, Ugo Pagliai, già oltre il giro di boa, ma non proprio ancora in età da bilanci. Lo stesso Tino Carraro non era certo ottantenne quando fu Lear della regia strehleriana del 1972 in cui Lavia era Edgar.
Lavia invece ci ricorda e ricorda a sé stesso che il suo Lear di anni ne ha ottantadue, e ce lo ricorda con l’energia di un cinquantenne e la coscienza di quello che è.
Il suo Lear è gravato dal peso di una storia che è personale ma soprattutto collettiva, storia privata di sofferenza nella quale confluisce il destino di un mondo in cui occorrono “sempre più soldati per fare le guerre” e allora avanti, “copulate alla rinfusa”, così come della sua casa, il teatro, che non se la passa al meglio, in cui la vicenda del vecchio re e delle sue figlie ha inizio.
Tutto prende il via da un teatro distrutto – scena povera, potente, evocativa di Alessandro Camera- nella quale fanno ingresso gli attori prossimi alla vestizione, uniforme, con i costumi di Andrea Viotti, una garanzia sempre. Il teatro nel teatro. Ma un teatro soffitta, o un teatro cantina, buio, umido, polveroso, in cui una compagnia di quasi scalognati si appronta ad allestire una tragedia del Bardo, mentre un motivetto suonato al pianoforte ricorda a tutti che “la vita non è un giochino”.
Questo re bistrattato e derubato del senno è come il vecchio attore che deve sopravvivere in un teatro distrutto, ferito, ingrato verso chi gli dà vita. Nel quale resiste, in un angoletto riposto, la memoria lontana di quello che è stato, il teatrino perfetto dove giocava Cordelia, la casa del cuore, che si disvela alla fine, appena cala l’ultima cortina che lo separa da lei. Sul fondale, in una sezione centrale di palcoscenico, è la sua casa, poco più di un’alcova, sormontata da un grande orologio che aspetta, in mezzo ai bauli pieni di cose e al desiderio, mai esaudito, di ricominciare da capo una storia interrotta.
Il re senza regno è soltanto un uomo, «uno come tanti che non contano nulla», scrive Lavia nelle note di regia, ma proprio per questo diventa metafora di una condizione. La nudità dell’uomo di fronte alla storia, l’impotenza dell’individuo di fronte ai giochi di potere, la desolazione dell’attore privato del suo teatro, il suo essere spoglio nella tempesta.
Come Lear che, portando tra le braccia la figlia morta, grida al mondo dormiente tutto il suo strazio e lo vorrebbe svegliare, e come il buon Gloucester tradito da un figlio e vanamente protetto dall’altro.
“Nella poetica di Lavia è sempre presente qualcosa di rotto, una ferita”, mi disse sempre Federica Di Martino. E forse la differenza la fa il modo in cui si prova a medicarla, il modo in cui ciascuno decide di attraversare la propria tempesta.
Non mi prodigherò in complimenti pleonastici ma dico soltanto che questo spettacolo deve essere visto: per l’ottimo cast, per la sobria potenza della messa in scena, perché niente e nessuno è giocato al ribasso, perché c‘è un Gloucester e c’è un Lear che vibrano fino all’ultimo centimetro quadrato di pelle.
Re Lear
di William Shakespeare
traduzione di Angelo Dallagiacoma e Luigi Lunari
regia Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia
e con (in o.a.) Giovanni Arezzo, Giuseppe Benvegna, Eleonora Bernazza, Jacopo Carta, Beatrice Ceccherini, Federica Di Martino, Ian Gualdani, Luca Lazzareschi, Mauro Mandolini, Andrea Nicolini, Gianluca Scaccia, Silvia Siravo, Jacopo Venturiero, Lorenzo Volpe
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
luci Giuseppe Filipponio
musiche Antonio Di Pofi
suono Riccardo Benassi
assistenti alla regia Matteo Tarasco, Enrico Torzillo
assistente alle scene Michela Mantegazza
assistente ai costumi Giulia Rovetto
suggeritore Nicolò Ayroldi
produzione Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Effimera s.r.l, LAC – Lugano Arte e Cultura.
Teatro Argentina, Roma, fino al 22 dicembre 2024.