Coincide con questo tempo istoriato di sovrapposizioni e disseminazioni e lasciti, quando non di sfalsamenti temporali e di messa in crisi dello “spettacolo”, lo sguardo di cui si sono fatti portatori i progetti Dancing Days e DNA – Appunti Coreografici, ovvero l’altra faccia del Romaeuropa Festival di quest’anno, quella aperta al rischio. È forse un recupero di un modo di stare in ascolto più vicino alle intemperie artistiche del mondo della danza e della performance del presente; forse un ritorno allo scouting in ambiti meno scontati dove il concetto di danza è sicuramente detronizzato. Forse, il recupero di una auspicata radicalità nell’effervescenza della contemporaneità, forse (appunto) solo una più lucida osservazione tra i materiali “imprevisti” di esperienze d’arte molto spesso presenti in altri festival della penisola dove si valorizza il margine, si lavora sulla fenditura tra la possibilità e l’inerzia di un gesto “attuale”. Contemporaneità: resta sempre un azzardo semantico definirne i canoni che, d’altronde, non esistono, ma è la necessità di una cornice che la determina e la fa sussistere, “prendere parola”. Come si stanno ormai liquefacendo i confini e i presupposti della danza, così il dibattito messo in campo dalla performance (in quanto ontologia dell’azione dispiegante, trasformante, processo di disinnesco della visibilità e della durata di un processo) trova il suo contrappunto repertoriabile nel gesto d’arte e nel riflesso incorporato che lo accompagna. Una piacevole sorpresa questa sezione del Romaeuropa Festival, dunque, un giusto riconoscimento al fuori luogo di pratiche che non si determinano più nel cuneo di un linguaggio storicizzato, ma verbalizzano un altrove della creazione artistica. E parlare soltanto di danza, allora, rimane un esercizio sterile. Danza e performance, nel reciproco potere maieutico dell’una sul crinale dell’incompiutezza dell’altra – incompiutezza come forma divagante, volutamente storta, che sposta la prospettiva e che bisogna guardare di sbieco (Alessandro Giammei docet), offrono in potenza una versione decisamente contemporanea del proprio ordine delle cose, se non altro in termini critici. Alcuni esempi.
Così il progetto scenico di Ioanna Paraskevopoulou MOS è una intersezione di suoni e immagini apparecchiati come una tavolozza di lavoro per una pittura organica fatta di materiali d’archivio e oggetti “attraversati” fisicamente; una stanza, un giardino, uno stare in movimento con Georgios Kotsifakis sempre in bilico tra lo scarto ironico e fatica del corpo. È una sovrapposizione di contenuti (visivi, sonori) che, come effetto di eco dilatata, sobilla quei comportamenti quotidiani restituendo un reale mediato, artefatto. E in queste corse e accelerazioni, spostamenti di confine percettivo, i due eccellenti performer rimandano agli astanti una inaspettata versione della cornice nella quale si muovono.
Ancora un archivio, una postura da definire ma in continua verifica di assestamento, il lavoro di Lara Barsacq La Grande Nymphe travalica la forma per scavallare in un femminile politicamente inatteso: del Prélude à l’après-midi d’un faune di Debussy la rifrazione dal corpo satiresco di Nijinski (o suoi epigoni) deflagra in quella riappropriazione di una storia rovesciandone il potere, la natura, il segno. Due performer, ninfe liberate, scompongono lo spazio cesellando metaforicamente un rito tutto al femminile (con corpi sensuali, corse sui pattini, decomposizione della danza) in dialogo con una consolle qui foriera di immagini meta-scritturali e classiche con interventi sonori incalzanti.
Stefania Tansini ispirata da un testo giovanile di Antonin Artaud L’ombelico dei limbi è potente. Utilizza lo spazio come una rabdomante, lo scarnifica fisicamente, lo attraversa lasciandosi scomporre dalle pareti, dai metri quadrati irregolari che rimandano alla danzatrice una verità che più insiste nel movimento e più diventa dolente, perturbante. Corpo, asfissia dell’identità, uso di materiali, qui si processa una memoria e il suo archetipo.
Quanto la Tansini, Chara Kotsali si muove in assolo ma come l’altra faccia di una medesima medaglia. La Kotsali è in ricerca delle sue possessioni. Assume sempre più un carattere “trasparente”, il suo essere tramite, proiezione e sintesi di infiniti altri corpi, altre possibilità del femminile, anche nella loro perturbante eversione demoniaca. To be possessed, questo il titolo del lavoro, muove dal recupero di rituali arcaici e allo stesso tempo contemporanei (nel segno di cui sopra, ovvero fuori canone), un alveo in cui si incuneano anime e forme molteplici e in divenire: lei una, glossario di molte lingue.
Arrivano dopo una selezione che ha coinvolto nella riflessione diversi partner nazionali i cinque progetti di DNA – Appunti Coreografici del REF, operazione anche questa dedita allo scavo nella giovane coreografia italiana che ha evidenziato uno scarto in atto, fosse anche momentaneo e parziale, ma indicativo di un pensiero liberato nel mondo della danza. Un pensiero dove convivono ricerca affinata nel fraseggio di un linguaggio proprio della danza e un repertorio tutto da imbastire, da ripensare, in quel confine sconfinante che non se ne fa più niente della danza, anzi, limitrofo alla performance rende surclassata l’idea stessa della danza e dei suoi prodromi linguistici. Nella “deriva” di un superamento della forma, i due progetti più convincenti e a loro modo complessi e finanche opposti, sono sembrati quello di Matteo Sedda (tra l’altro vincitore di questa edizione 2024) e quello di Gaetano Palermo e Michele Petrosino.
Vincitore di questa edizione, Sedda costruisce con Marco Labellarte un duo decisamente potente, composizione a incastro di due corpi che si inseguono, si intrecciano, appaiono commossi, dolenti erotizzati dunque seducenti ma subito dopo distanti, come in lotta. Sempre in una dinamica accelerata in cui tessuto sonoro e fiato si impastano magistralmente. Fuck me blind è un progetto totalmente esposto in quei corpi che si cercano, respingenti e avvolgenti come atto d’amore esclusivo e totalizzante, quasi l’altro emisfero di Save the last dance for me di Alessandro Sciarroni, volutamente “imperfetto” e non estetico.
L’azione di Gaetano Palermo e Michele Petrosino Fuga non dissimula ciò che espone, non porta metaforicamente in un altrove da quello visibile e tangibile che cogliamo in scena, non rimuove il rimosso che il concetto stesso della fuga porta con sé, ma sembra omaggiare lo studio di Erwin Panofsky La prospettiva come forma simbolica che pone con forza il tema mai superato del rapporto fra “realtà” e “apparenza”. Un performer su un tapis roulant technogym muove i suoi passi e poi un lento andamento fino a giungere a una allenata corsa e per tutto il tempo, quel parziale tempo di uno studio o primigenia forma di lavoro scenico, assistiamo al suo sforzo, al suo personale rituale domestico. Come un derviscio tecnologico, un astante calato in un soffio sciamanico che ipnotizza e smonta la sacralità dell’atto performativo, persino quello eterodosso. L’intelligenza compositiva di Palermo si conferma quale creatore estroflesso di oggetti d’arte spuri, irriverenti, non mistificatori.