«In verità, la storia fluttua come il volto del paesaggio da mattina a sera», scriveva Henry David Thoreau. Sembrerebbe un monito e sicuramente non una resa, la posta in gioco per il pensatore-scrittore statunitense del diciannovesimo secolo era la libertà dell’individuo, la democrazia sociale, anche a fronte delle inevitabili trasformazioni di un’epoca, quella di fine Ottocento, in preda a un modernismo incipiente che da lì a poco avrebbe stravolto tutto, fatto scempio di uomini e natura. Una delle tante volte in cui l’orrore si è manifestato con disinvoltura, solo che in quel momento storico l’intervento della tecnica sarà decisivo e risolutorio per i conflitti in corso non tra nazioni o signorie ma tra conquistatori e conquistati, tra colonizzatori e colonizzati. Il pensiero di Thoreau – che dovremmo un po’ tutti riscoprire – ha quella complessità così attuale obliterando persino una radicalità in nuce rivoluzionaria, così vera che si fa gesto, concretezza dell’agire filtrata nel pensiero del rifiuto, nella “desistenza”. Capace di distillare i fondamentali e rimarcare il diritto del singolo sulla estremizzazione del profitto. Detta altrimenti, Thoreau parlava di sottrazione, di rifiuto cristallino, avendo ben presente lo scollamento di senso tra le affermazioni progressiste (di quelle reazionarie non ce ne curiamo) e le azioni di fatto incompiute, tra principio e gesto, in un paese dove la questione razziale dei neri – e prima ancora della schiavitù – si assolveva (mai assolta del tutto a dire il vero) con l’indifferenza nei confronti dei nativi, lasciati questi a un destino di miseria nelle riserve dopo averne depredato la terra e il corpo. Perché Thoreau? E perché Thoreau oggi? Perché recuperarlo in questo momento in cui il sistema spettacolo dal vivo, per esempio, viene a trovarsi in una metafisica palude a causa del Covid-19? Ci troviamo di fronte a una sospensione davvero reale con tutto quello che comporta di smottamento economico e progettuale, una sospensione che auspica un nuovo inizio subito dopo, certo, ma che inevitabilmente sarà identico allo stesso, un re-inizio rimandato però a chissà quando. Uno stallo cognitivo e percettivo che avviluppa tutti i livelli della persona e in potenza tutte le sue funzioni operative; difatti siamo fermi. Ci si ingegna spostando la propria azione e le proprie personalissime auto-narrazioni sul web, facendo da eco a ciò che i cittadini “comuni” stanno attuando come un gigantesco flash mob che quotidianamente collega tutto il Paese ad orari stabiliti. Lo stanziamento di ulteriori fondi al FUS, gli appelli di artisti, operatori e critici, microstorie e altre narrazioni o creazioni spontanee che vanno a depositarsi in streaming o in canali dedicati, un bel pezzo di società collegata insomma ci mette la faccia e agisce. Bene. Ma dopo? Davvero ci auguriamo che tutto riparta da lì, dove eravamo rimasti, senza alcun ripensamento? Davvero le garanzie continueranno a garantire soltanto una parte di quegli artisti e operatori? Davvero, ma davvero certe “opere” che nullificano col beneplacito istituzionale il senso di ricerca e di azzardo concettuale continueranno ad addolcire i palinsesti dei teatri pubblici e il cattivo (retrò) gusto di una critica e una accademia ormai ammansite, quando non assoldate da un mercato ipocrita? Questi giorni in cui ce la raccontiamo come una opportunità di recupero di un tempo (ritrovato) per sé e con l’altro, di ellissi sentimentale dei nuclei familiari, di una recherche, appunto, nello spazio profondo della propria anima, potranno essere giorni di vera condivisione? Leggiamo “ringraziamenti” sui generis al Coronavirus per aver guarito l’aria e la Terra, facendoci riconoscere il respiro, per averci lasciato l’opportunità di riprovare a camminare col proprio moto incontrando una diversa sostenibilità delle relazioni, se non altro meno di facciata o di clan. Qualcuno come Slavoj Žižek ci ricorda che «l’epidemia di Covid-19 non dimostra solo i limiti della globalizzazione dei mercati, ma anche quelli ancora più letali del populismo nazionalista che insiste sulla piena sovranità dello stato (…). La crisi attuale dimostra chiaramente (altresì) che la solidarietà e la collaborazione globale sono nell’interesse di tutti e di ciascuno di noi, e sono l’unica cosa razionale ed egoista da fare» (1). E se, come scrive Nicolas Bourriaud, «dopo l’epoca dell’impegno proviamo una patetica difficoltà a “trattenere” qualsiasi cosa in uno spazio culturale volatile, se non dei nomi propri che rivestono sempre più il ruolo di marchi» (2), allora è terribilmente vero che «la romanticizzazione della quarantena è un privilegio di classe» (passaggio che assolutamente ci sentiamo di condividere carpito nel bollitore di Facebook). L’inquietudine porterà Thoreau a sviluppare un pensiero del dissenso, un pensiero sempre logico e mai manicheo (seppure ricco di stravaganti vagabondaggi filosofici e di posizioni profetiche), lì a ricercare una via fattuale, pratica, vera insomma, per una soluzione democratica della convivenza e del rispetto fra popoli, una rivoluzione a partire da sé: «Farsi governare, secondo Thoreau, significa delegare il proprio giudizio morale a un sistema di norme che non stabilirà mai ciò che è davvero giusto e sbagliato, ma che sarà soltanto l’espressione della volontà di chi detiene il potere» (3).
1) Slavoj Žižek , Un nuovo comunismo può salvarci, in “Internazionale”, 13/19 marzo 2020, n. 1349 – anno 27, p. 35.
2) Nicolas Bourriaud, Il radicante, postmedia books, Milano, 2014, p. 83.
3)Leonardo Caffo, Introduzione a Disobbedienza civile di Henry David Thoreau, Einaudi, Torino, 2018, p. VIII.