L’interminabile linea di demarcazione di un’autostrada al centro del deserto, le possenti montagne rocciose rosse della Monument Valley, stazioni di servizio semi abbandonate, iconiche scritte pop sui muri e sulle insegne pubblicitarie di città di provincia, lo sguardo caotico e romantico della grande Mela vista dall’altra parte del fiume e perfino una poetica visuale dal basso di Trinità dei Monti sono alcune immagini del profondo graffio artistico di un vulcanico Bob Dylan, conosciuto al mondo – prima ancora che per i numerosi riconoscimenti (tra gli ultimi il Nobel per la letteratura) – per la sua arte di raccontare in musica ritratti di luoghi, generazioni, concetti temporali e temi filosofici, con una maestria di perfetta integrazione tra testo, melodia e accordi. Ebbene, molti dei suoi brani – per non dire tutti – nascono dalla sua visione assoluta interiore, che fa dell’astrazione figurata di ogni storia un film espresso emotivamente dalla voce, dall’armonica, dalla chitarra e soprattutto dalla sua discreta ma incisiva presenza scenica. Ora lo stesso Dylan, col prezioso apporto del curatore Shai Baitel, ha deciso di mostrare al mondo quell’altra parte di sé, cioè dettata dall’ispirazione sfogata su tela tramite un pennello deciso, quasi al confine con l’Iperrealismo.
Le immagini evocate e descritte nella mostra Retrospectrum, approdata dal 16 dicembre scorso al MAXXI di Roma e in programma fino al 30 aprile 2023, ripercorrono questa sua molteplicità creativa interiore, dove la dimensione del colore riesce magicamente a sposarsi con l’atmosfera sonora interpretata e dove, proprio attraverso i maxi quadri disposti in una ricercata e armoniosa combinazione con gli spazi architettati da Zaha Hadid – dentro la Galleria 5 con la sua impressionante facciata aggettante – rappresentano macchie di una biografia itinerante costruita da un passato in mezzo al nulla ed edificata col colore della propria immaginazione.
Nato infatti nel Minnesota, Robert Allen Zimmerman – che poi assunse legalmente il nome di Bob Dylan – prende spunto dal paesaggio che pervade la sua infanzia, a cavallo di una chitarra e di un occhio attento che sublima la percezione inizialmente proprio attraverso canzoni e disegni, per poi attraversare con un talento grafico non indifferente gli Stati americani immergendo la propria stanza segreta ispirativa nel tratto di una visione sublimata che impera su un essere umano lillipuziano. La Natura – alla pari degli oggetti culto di un boom economico, siano essi pannelli pubblicitari o grattacieli – domina l’uomo che si perde nel trionfo dell’infinito mostrato all’orizzonte o nella cornice della storia edificata mattone su mattone dall’uomo nel contesto degli anni vivi della ripresa economica o della contestazione.
Tra le opere di significativa rilevanza presenti in mostra spicca l’installazione Subterranean Homesick Blues che vede accompagnare il video dell’omonima canzone del 1965 ad una composizione dei cartelli con i significati cantati e mostrati nel filmato, un artwork donato dallo stesso Dylan al MAXXI per l’occasione. «Una consapevolezza alterata della realtà», come trasmettevano allo stesso menestrello le sue composizioni che giudicava delle maestre di vita, ispiratrici della propria essenza perché capaci di scavare nel passato personale: fin dal 1973, anno in cui Dylan pubblica Writings and Drawings, volume che include brani musicali e disegni che ne visualizzano il corpus semantico.
Un percorso, quello artistico, che sebbene anticipato fin da metà Sessanta in una forza di volontà ferrea rivolta verso la poliedricità creativa (curiosa un’intervista di quel periodo contenuto nel bel video in mostra che vede Dylan sicuro di poter diventare un pittore professionista nel suo futuro), si rivela nella sua magnificenza dal secondo decennio del nuovo millennio. Imperdibili sono infatti i lavori del 2018, una serie intitolata Mondo Scripto che vedono dialogare i testi manoscritti di alcune sue canzoni con l’immagine disegnata dei momenti clou della composizione stessa. Il viaggio visivo attraverso gli Stati Uniti, che domina il corpus centrale dell’esposizione nel blocco The Beaten Path è la sublimazione della storia americana contemporanea, un vero e proprio collage di pezzi di vita vissuta nel nuovo continente tra motel di periferia, luna park non finiti e strade che corrono verso interminabili traiettorie dell’ignoto.
Una realtà concreta che confligge con la finzione della fotografia cinematografica catturata dal pennello nella sezione Deep Focus, dove Dylan cattura la scena di un film focalizzandone i particolari tra primo piano, secondo piano e fondo, una scelta colta nel desiderio di evidenziare una specifica situazione che l’individuo si trova a fronteggiare, sia essa reale che onirica.
Ma l’emozione cinematografica non è che una piccola parte della sua vita interiore, che si incrocia con luoghi dell’anima che lo illuminano durante le sue sterminate tournée: da New Orleans e le diverse angolazioni prospettiche che offre, all’Europa e Asia che lo stimolano – tra il 1989 e il 1992, a raccogliere le impressioni generate da incontri con culture differenti all’interno di un diario di schizzi a matita, carboncino e penna, The Drawn Blank.
Allo stesso modo, il suo tocco revisionista “pop” riesce a far interagire vero e verosimile rielaborando graficamente in gigantesche serigrafie alcune copertine di celebri riviste, tra cui “Rolling Stone” e “Playboy”, creando nuove connessioni tra arte visiva e design grafico.
Un’altra particolarità del tutto soggettiva di (ri)creazione artistica sono i suoi Ironworks, sculture nate dalla lavorazione di pezzi di ferro – tra ingranaggi, macchinari e utensili – che vengono svuotati da una funzionalità industriale per riportali ad un’autoreferenzialità artistica. Un panorama del passato dylaniano – la sua infanzia nell’Ohio era circondata di miniere e fabbriche – da cui l’artista si libera, pur evocandola, per riportarne alla luce l’essenza archetipica ma anche incorniciandole di vera luce propria e a volte dal doppio riflesso, proprio come i “cancelli” che affascinano Dylan per lo spazio negativo che offrono: «possono essere chiusi, ma allo stesso tempo permettono alle stagioni e alle brezze di entrare e fluire. Possono chiuderti fuori o chiuderti dentro. E, in un certo senso, non fa alcuna differenza».
Retrospectrum, un termine che indica una prospettiva, quella di un autore che ha saputo intendere il concetto di arte come una perfetta simbiosi tra testo, musica e immagine e che proprio in questa mostra multimediale, davvero ben congegnata, riesce a comunicare quello spirito geniale che trasforma un’impressione personale in una percezione cognitiva globale.
Bob Dylan. Retrospectrum, a cura di Shai Baitel, MAXXI, Roma, fino al 30 aprile 2023.