C’è tanta roba in questo nuovo lavoro di Carrozzeria Orfeo. Tanta, tanta e a tratti si fatica a galleggiare. Salveremo il mondo prima dell’alba, in scena al Teatro Vascello di Roma fino al 17 marzo, è comunque un lavoro importante, uno spettacolo che va visto e che, come i precedenti, lascia un segno forte. Nello spettatore e nel percorso di questa compagnia con tre lustri di vita diretta da Gabriele Di Luca e Massimiliano Setti, una decina di spettacoli all’attivo, forse di più, tutti nel segno di una drammaturgia originale e di una scrittura incandescente, irriverente, divertente e divertita, proprio nel senso che si diverte a girare il dito nelle piaghe di un’umanità alla deriva, che non si capisce bene se sia riuscita a “distruggere il pianeta o se lo abbia salvato distruggendo sé stessa”.
Suona più o meno così una considerazione a poche battute dalla fine, un po’ come dire, o noi o il pianeta, visto che di preservarci insieme non siamo capaci.
Ma non è il pianeta e la sua salvezza il filo conduttore, è il genere umano guardato questa volta dalla prospettiva dei ricchi, dei quasi nulla facenti a cui importa soltanto salvare sé stessi, magari migrando oltre la crosta terrestre.
Vero è che tutti i personaggi delineati da Di Luca non fanno ben sperare sulla continuità della specie né viene voglia di investire sulla loro eventuale capacità di recupero. In questo caso, in particolare, li vediamo ristagnare in un centro benessere avveniristico, allestito su un satellite nello spazio, dove si curano le dipendenze, perlopiù costosissime e degne di una Spa all’ultimo grido, sauna, palestra e tutti i confort. Compresi gli “ingombri” da cui liberarsi che alla meglio sono sonniferi, ma solo alla meglio.
Intanto l’alba del titolo lascia loro tutto il tempo di industriarsi. Non c’è fretta, prendetevela comoda. Tra un bagno turco, un giro in cyclette, una videochiamata sulla terra, una teca bonsai dove provano a coltivare un albero di melo, la resurrezione del mondo può ben aspettare.
Ma si sa che quando si ha poco o niente da fare anche i ricchi si annoiano e litigano e frignano e imprecano e vengono fuori i caratteri, tragicamente veri nella loro comicità parossistica. Non è una novità: è proprio la cifra di questa compagnia che fin dai suoi esordi mette in fila una carrellata di palpitanti paradossi antropomorfi per raccontare di tante storture che un po’ ci appartengono, disagi, sofferenze e soprattutto pregiudizi nascosti sotto la maschera tronfia che ci precede.
Dal coach involuto in bermuda di tela di Massimiliano Setti, una concentrazione di frasi fatte e luoghi comuni rovistati nel gergo della più sbrodolosa New Age, alla cantante pop infastidita dal successo di Alice Giroldini – precauzionali riserve sulla parità dei sessi e volto del manager tatuato sul sedere, ma è soltanto per vendicarsi della sua infedeltà con la regolarità di un intestino in buona salute -; dal produttore compulsivo di fake news di Ivan Zerbinati al di lui servitore bengalese di Sebastiano Bronzato, un esilarante personaggio dal braccio finto e l’accento straniero che prova a fare proseliti per due pinguini superstiti appartenenti a una razza in via di estinzione. Fino alla coppia gay composta da un uomo sposato con tanto di figlia (Sergio Romano) che di professione fa il manager di una fabbrica che ufficialmente produce farine biologiche e dal suo beneamato nullafacente che però un figlio lo desidererebbe davvero “come un miracolo” (Roberto Serpi). Ma i miracoli sono altri e hanno a che fare con l’efficienza del corpo. A questo punto c’è una battuta, una delle tante irresistibili battute che arrivano dal manager, non spoilererò qui ma anticipo soltanto che ha a che fare con i testicoli e la pratica del bidet.
Le battute che meriterebbero di essere fissate sono tante, così le prese per i fondelli di un certo lessico gergale, di certe inclinazioni, di certe pratiche consolatorie rivolte agli inconsolabili, di certo pensiero positivo che non performa un accidente (“Non pensarti povero, non pensarti senza un braccio, sennò sei un fallito anche nella fantasia”).
La struttura del testo vive prevalentemente di dialoghi a due che si ripropongono con accoppiate diverse, e bastona i capitalisti arricchiti con lo strategico ribaltamento di ruolo in cui sarà il servo bengalese a fare giustizia e a dire la sua: un momento spassosissimo in cui il sottoposto umiliato e castigato diventa una specie di celebrante incazzato che costringe tutti a dire “io mi vergogno”.
Attori tutti in parte, bravi e accordati, ritmo che regge (quasi) sempre: e il quasi dipende da un superfluo ricorso alla didascalia, alla sottolineatura un po’ paternale in cui ci vengono spiegate cose che già sono chiare e che in ogni caso si sanno benissimo.
Ma forse la necessità di non perdere nulla, di non lasciare fuori nessun capo d’accusa, nessuna disgrazia possibile o fosse pure incombente, crea un effetto di saturazione e una o due volte ti viene quasi da dire ci mancava anche questa.
Perché dentro questa lunga attesa dell’alba è precipitato di tutto, e non soltanto attraverso la forza innegabile delle battute: il capitalismo, il razzismo, il complottismo, i no vax, i terrapiattisti, il femminismo, il corpo della donna questo sconosciuto, i figli legittimi e no, la fuga da sé stessi attraverso il contatto con la natura, l’ecologia, i bisogni indotti dal sistema capitalistico, la tecnologia al servizio dell’immortalità ma soltanto dei ricchi, il conflitto madre figlia, i social e i follower e il consenso mediatico, l’intelligenza artificiale, la guerra nucleare, il tradimento derubricato a incontro di energie, la menomazione fisica e persino il parkinson.
Un po’ troppo, perché mezz’ora di meno e qualche snodo asciugato, avrebbe giovato. Resta in ogni caso un bello spettacolo e una degnissima prova d’attori.
E chiudo con una battuta che avrei voluto scrivere io: «Dio, quanto odio quelli tutti positivi che ogni volta che gli capita una sfiga è stata messa lì dall’universo per insegnargli qualcosa. Li riconosci subito: camminano a tre metri di altezza credendo di avere afferrato il senso della vita e di solito portano le Birkenstock».
Salveremo il mondo prima dell’alba
uno spettacolo di CARROZZERIA ORFEO
drammaturgia Gabriele Di Luca
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
assistente alla regia Matteo Berardinelli
consulenza filosofica Andrea Colamedici-TLON
con Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Roberto Serpi, Massimiliano Setti, Ivan Zerbinati
musiche originali Massimiliano Setti
scenografia e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
direzione tecnica Alice Mollica e Andrea Gagliotta
tecnico elettricista Ermanno Marini
creazioni video Igor Biddau
con la partecipazione video di Elsa Bossi, Sofia Ferrari e Nicoletta Ramorino
illustrazione locandina Federico Bassi e Giacomo Trivellini
una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli Teatro Bellini
in collaborazione con Centro di Residenza dell’Emilia-Romagna L’arboreto Teatro Dimora | La Corte Ospitale
Teatro Vascello, Roma, fino al 17 marzo 2024.
Prossime date:
Teatro Verga, Catania, dal 21 al 24 marzo 2024.
Teatro Palamostre, Udine, 3 aprile 2024.
Teatro Rossetti, Trieste, 4 aprile 2024.
Teatro Civico, La Spezia, 6 e 7 aprile 2024.
Teatro Elfo Puccini, Milano, dal 9 al 28 aprile 2024.