Un’opera considerata datata proprio quando è tremendamente attuale. Da questa considerazione sembra prendere le mosse il lavoro più recente di Kepler 452, Il Capitale, un’analisi senza sconti di questo tempo presente, in questa Italia allo sfascio, in cui gli ultimi cocci vengono usati per seppellire i disperati, liquidati alla stregua di merce scaduta da eliminare senza perdere tempo.
La sottrazione sistemica del plusvalore, bersaglio cardine della critica marxiana alla società capitalistica, è un dato di fatto, perpetrato a tutti i livelli, dalla grande industria alla microeconomia, in tutti i settori in cui il lavoro, nero o meno nero, viene sottopagato.
Il datore di lavoro trattiene per sé quella parte di denaro che spetterebbe ai lavoratori, impoverendo loro e rimpolpando il suo capitale.
In poche parole, il capitale nasce da un furto perché se l’appropriazione è indebita, se mi approprio io di quello che spetta a te, rubo. Non è proprio così: facile facile, ma è così: stringi stringi. Perché se così non fosse, ci sarebbero i ricchi e i meno ricchi, come ci sono i sani e i meno sani, ma i capitalisti e i miserabili, no, non ci sarebbero. Ci sarebbero casomai benestanti datori di lavoro e dignitosi lavoratori stanti bene.
In termini moderati, la logica capitalistica è il presupposto di un’iniqua distribuzione delle risorse e l’economia capitalistica, la sua conseguenza. Questo, a cominciare dalla risorsa “lavoro”, che non viene valutato per quello che vale. La forza lavoro vale 10? Ecco, viene pagata 3, o facciamo pure 6. Il 4 che resta e che spetterebbe al lavoratore se lo intasca il datore di lavoro, oppure lo stato, sotto forma di contributi, oppure entrambi, un po’ ciascuno, d’amore e d’accordo, uniti nell’eliminazione del terzo incomodo, privato di risorse e ammortizzatori. Perché? Perché il capitalismo funziona così. Finché dura. E quando non dura, fuori per sempre la forza lavoro. Si chiude, si espatria, si trasferiscono gli affari dove gli affari si fanno, tipo nei paesi dell’est. Lì la forza lavoro costa meno di uno e farla franca è ancora possibile.
Ora, che sia questa la situazione che stiamo vivendo in Italia è più che evidente e lo è da un bel po’ di anni. Industrie che chiudono, lavoratori in cassa integrazione e poi licenziati, famiglie per strada, automobili rimediate per dormire la notte. Gente stante bene se non proprio benestante ridotta in miseria. E una pandemia che ha prodotto quel che sappiamo.
A illuminarci su quel che invece non sappiamo, o non sappiamo fino in fondo, o fingiamo di non sapere, ha provveduto questa compagnia di teatranti in trasferta, non già in tournée, ma trasferitisi entro le mura di una fabbrica occupata insieme agli operai licenziati via e-mail. Oggetto: procedura licenziamento collettivo. 422 operai licenziati dal giorno alla notte.
Nella fattispecie parliamo della GKN di Campi Bisenzio dove il 9 luglio 2021 è cominciata un’occupazione di mesi. Lì Enrico Baraldi e Nicola Borghesi avrebbero condiviso la vita degli occupanti, dormito su brandine, partecipato a picchetti, manifestazioni, assemblee. Lì avrebbero ascoltato le loro storie di vita e lavoro, dove la vita sparisce fagocitata da tempi inumani di un lavoro che non ti dà pace. Lì, attraverso la quotidianità di uomini e donne in carne e ossa, due teatranti più che mai disposti alla compromissione, hanno innescato un dialogo attivo tra le pagine di Marx e un piccolo spaccato di vita (o non vita) vissuta: dove le persone non sono gli ingranaggi sostituibili di una macchina mostruosa di fronte alla quale ti devi solo rassegnare, perché così va il mondo, “la storia è già scritta”, “il capitalismo è ineluttabile”, ma sono individui con una coscienza e una volontà, sia pur calpestata e messa a tacere.
Termine assai abusato, empatia, ma resta pur sempre il più adatto per descrivere lo sguardo di Enrico e Nicola: sguardo che ha cercato in tre di loro, in particolare, un’interlocuzione diretta. Sono Iorio, manutentore, Felice, operaio addetto al montaggio, Tiziana, operaia addetta alle pulizie, tutti e tre catapultati sul palcoscenico in veste di testimoni: non soltanto dei retroscena di fabbrica fatti di caporalato, ricatti, maschilismo, delazione e istigazione alla medesima, perché «in fabbrica una donna o fa la capa stronza o fa la tipica mansione da donna, cioè l’addetta alle pulizie», ma di tutto quello che succede nella psiche e nel corpo quando la reificazione della coscienza è compiuta, quando sei umanamente annullato, quando ti chiamano quella perché «nella vita c’è sempre qualcuno per cui devi essere quella». I sentimenti umani e le umane emozioni in fabbrica latitano, silenziate per pudore, orgoglio, vergogna, finché non si affacciano tra una crisi depressiva e un attacco di panico.
Allora “come state” diventa una domanda per nulla scontata, per nulla retorica. Una domanda, si dice a un certo punto dello spettacolo, a cui non rispondiamo mai davvero, mai sinceramente. Né vi risponde questo librone di mille pagine che ha fatto la storia e che continua a chiamarci dentro.
Ecco, forse la necessità di questo lavoro sta nell’andare oltre un’analisi puramente teorica e fare di un saggio monumento della critica economica e sociale, non solo un paradigma di riferimento ma una chiave di accesso per approssimarsi a esistenze diverse. Sta nella volontà di porsi in ascolto per restituire una verità emotiva che ci parla attraverso corpi stremati e stati d’animo complessi.
Il cortocircuito con lo stato d’animo degli attori è inevitabile e produce una sana e incazzata insofferenza per il mondo luccicante che gira di fuori, le vetrine piene di merce, il busto di Lenin che troneggia sulla libreria dei genitori, per la loro «parte bambina che si ostina a non morire», persino per il loro essere attori perché «io, in quella fabbrica, ci sono entrato per fare teatro».
Eppure, quello de Il Capitale, opportunamente sottotitolato Un libro che ancora non abbiamo letto, è stato ed è tuttora un’occasione reciproca. Da parte della compagnia, abituata a muoversi ai margini – tra gli sfrattati ne Il giardino dei ciliegi, dei senza tetto in F. Perdere le cose – è il tentativo di esplorare dinamiche radicate all’interno di un sistema disfunzionale e tuttavia legittimato. Per i novelli attori, disinvolti tanto quanto motivati, un esercizio di rappresentanza viva al di fuori degli organi predisposti, dal sindacato alla manifestazione autorizzata.
Non so quanto il teatro possa incidere sulle scelte e sulle decisioni di chi è abituato a fregarsene, ma sul pensiero di chi è abituato a pensare sì, incide e sollecita.
IL CAPITALE
Un libro che ancora non abbiamo letto
un progetto di Kepler-452
drammaturgia e regia Enrico Baraldi e Nicola Borghesi
con Nicola Borghesi
e Tiziana De Biasio, Felice Ieraci, Francesco Iorio – Collettivo di fabbrica lavoratori GKN e con la partecipazione di Dario Salvetti
luci e spazio scenico Vincent Longuemare
sound design Alberto Bebo Guidetti
video e documentazione Chiara Caliò
consulenza tecnico-scientifica su Il Capitale di Karl Marx Giovanni Zanotti
assistente alla regia Roberta Gabriele
macchinista Andrea Bovaia
tecnico luci e video Giuseppe Tomasi
fonico Francesco Vacca
elementi scenici realizzati nel Laboratorio di ERT
responsabile del laboratorio e capo costruttore Gioacchino Gramolini
scenografe decoratrici Ludovica Sitti con Sarah Menichini, Benedetta Monetti, Rebecca Zavattoni
ricerca iconografica e immagine di locandina Letizia Calori
produzione Emilia-Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale.
Si ringraziano Stefano Breda e Cantiere Camilo Cienfuegos di Campi Bisenzio.
Lo spettacolo ha debuttato lo scorso 8 ottobre a Bologna, Teatro Arena del Sole.
Prossime date:
Kunsten FestivalDesArts, Bruxelles, dal 31 maggio al 3 giugno 2023
Zona K, Milano, 4-5 ottobre 2023.